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La Gelmini fa Novecento (il Riformista 23 giu)

di Adolfo Scotto di Luzio

La prima considerazione da fare è innanzitutto che lo schema bipolare non regge. La traccia su Primo Levi è un mero esercizio di lettura e comprensione di un testo quale che sia (in questo caso, la prefazione all’antologia La ricerca delle radici). La prova ministeriale fa domande del tipo cosa significa questa frase, cosa vuol dire l’autore con quest’altra e così via. Non c’è nessun riferimento al catalogo dell’autore, al suo canone. Fra l’altro, i funzionari del ministero hanno anche previsto una via d’uscita per chi, e c’è da giurare che sono i più, non avesse letto il libro: indichi il candidato la propria di antologia ideale. Certo, sarebbe molto interessante poterli leggere questi temi; mettere a confronto le due adolescenze, quella borghese e primo novecentesca di Primo Levi, nato e cresciuto in una casa dove tutti leggevano «compulsivamente», e le adolescenze nostrane, per i quali i libri non sono un paesaggio domestico, un oggetto desueto semmai.

Ma detto questo, non è che la lettura di Levi proposta dal ministero fosse particolarmente qualificata. Ce ne mettevano un altro di scrittore e, state pur certi, il significato della prova non cambiava. Il cuore di questa maturità è stata sicuramente la traccia di storia; molto circostanziata, il confine orientale italiano, dagli accordi di Londra del 1915 al trattato di Osimo di sessant’anni più tardi, con particolare attenzione agli anni 1943-1954. Ci sono le foibe, naturalmente e ci sono la persecuzione anti italiana dell’entroterra istriano, gli accordi di pace del 1947 e la questione del territorio libero di Trieste, le manifestazioni irredentiste italiane in città del 1952 e la brutale repressione delle truppe angloamericane, l’invio dell’esercito deciso dal governo della nostra giovane Repubblica nell’estate del 1953, pronto a occupare la famosa Zona A nel caso che Tito avesse proceduto, come minacciava, all’annessione della parte nord occidentale dell’Istria già sotto la sua amministrazione. Erano gli anni in cui gli studenti della Penisola sfilavano in corteo per Trieste italiana e non ancora per il Vietnam. Un modo di essere giovani e di sentire l’impegno che gli anni Sessanta avrebbero totalmente cancellato dalla memoria collettiva del paese (in questo senso la traccia di storia fa il paio con quella sull’impegno politico dei giovani).

È una scelta sicuramente coraggiosa quella del ministro, rispetto alla quale si possono fare due ordini di considerazioni. Innanzitutto, la precisione dei riferimenti, le date, la periodizzazione e con essa il quadro storico generale, la dimensione geopolitica. È un linguaggio inconsueto nella scuola dell’autonomia.

Presuppone un modo di studiare la storia che in questi anni ha subito duri colpi. Date, se vi va, un’occhiata alle indicazioni nazionali, vale a dire al documento che dalla Moratti in avanti ha sostituito i vecchi programmi ministeriali. Ci troverete un misto di genericità e di pompose ambizioni critico-metodologiche a cui molto si deve dell’attuale ignoranza degli studenti italiani. Se l’autonomia scolastica è il nuovo credo burocratico amministrativo di questi anni, esempi come questi indicano un tentativo di riprendere il controllo sulla qualità dell’insegnamento dopo molta deriva.

Per avere un’idea della novità di stile intellettuale di questa maturità basta confrontarla con le tracce di storia degli anni passati. Si prenda ad esempio il non troppo lontano 2003, quando infuriava la polemica intorno all’altro ministro di centrodestra, Letizia Moratti. All’epoca gli studenti furono chiamati a esprimersi su «terrore e repressione politica nei sistemi totalitari del Novecento», con spunti tratti dal fascismo, dal nazismo, dallo stalinismo. Il pregiudizio novecentesco, che alligna ormai nella scuola italiana da quindici anni a questa parte, qui produce degli esiti meno vacui e meno genericamente ideologici.

Ed è questo l’altro aspetto da mettere in rilievo. La tematizzazione non generica del Novecento significa affrontare senza ipocrisie e senza infingimenti i nodi tragici della nostra storia nazionale. Questi nodi sono stati occultati per decenni. L’oblio prima, e i tentativi di banalizzazione poi, sono serviti anche a precostituirsi delle uscite di comodo e a buon mercato dalla crisi del comunismo e delle sue forme politiche organizzate. Se questa maturità indica il ritorno allo studio della storia, fuori dalle ipocrisie e dagli omaggi rituali al primato del contemporaneo, è sicuramente un buon segnale.

 

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