Era iniziata da quasi un anno anche se i primi soldati erano partiti in estate assicurando mogli, fidanzate e famigliari che sarebbero tornarti a casa prima della caduta delle foglie.
I colpi di pistola esplosi a Sarajevo il 28 giugno 1914 avevano echeggiato per tutta l’Europa, dopodiché iniziarono a crepitare le mitragliatrici, a esplodere le granate e a tuonare le cannonate.
Chi la combatteva in prima linea o soffriva in ansia nelle retrovie iniziò a chiamarla Grande Guerra. Grandi, enormi erano le masse di uomini che si fronteggiavano sui fronti che squarciavano il vecchio continente, in Francia come in Polonia, in Serbia come in Belgio. Gigantesco era il quantitativo di armi, munizioni e vettovagliamento che sosteneva milioni di uomini in armi, tanto dal lato dell’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia, ma anche Belgio, Serbia, Montenegro e Giappone e poi Italia, Romania, Grecia e Stati Uniti d’America) quanto dal versante degli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria ma anche Impero Ottomano ed in seguito pure la Bulgaria).
Una guerra talmente grande da essere combattuta simultaneamente anche in Asia, Africa e Oceania, al fine di colpire i possedimenti ottomani e le colonie tedesche. La corsa agli armamenti navali che precedette gli anni del conflitto invece produsse pochi scontri epocali, poiché le nuove corazzate classe “Dreadnought” andavano risparmiate per uno scontro decisivo, restavano al sicuro nei porti protette dalle batterie costiere e dalle altre navi da battaglia. Alla strategia della “flotta in potenza” fece eccezione l’arma subacquea: i sommergibili cominciarono a insidiare le navi nemiche, tanto militari quanto commerciali e fu il naviglio più leggero a salire in auge, tanto per difendere i convogli quanto per effettuare incursioni o ricognizioni.
Ma questa Guerra fu grande anche perché al suo interno sfociarono conflitti irrisolti e conflittualità latenti. Per francesi e tedeschi si trattò della “revanche” (rivincita, da cui il termine revanscismo) del conflitto del 1870-71, che abbattè l’Impero di Napoleone III e portò al trionfo quello prussiano. La Russia zarista umiliata pochi anni prima dal nascente impero giapponese in Estremo Oriente cercò rivincite sullo scacchiere europeo, dal quale si era ritirata dopo la sconfitta nella Guerra di Crimea. I giovani Stati balcanici vissero una terza guerra balcanica, dopo che le prime due avvenute all’inizio del decennio avevano ridotto ai minimi termini la presenza ottomana in Europa e ridimensionato le conquiste della Bulgaria. L’accresciuta potenza della Serbia fiancheggiata dalla Russia ostacolava la spinta dell’Impero austro-ungarico verso i Balcani, quindi l’attentato di Sarajevo rappresentò l’occasione da sfruttare per liquidare il piccolo ma combattivo antagonista. Ultimatum, dichiarazione di guerra, meccanismo di alleanze: la ripetizione di questa connessione portò l’Europa in guerra in pochi giorni, ma inizialmente l’Italia restò in disparte.
Fu appunto il 24 maggio 1915 che Re Vittorio Emanuele III di Savoia ruppe gli indugi e, dopo aver denunciato la Triplice Alleanza che dal 1882 legava Roma a Vienna e Berlino, volendo «compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri», fece entrare il Regno d’Italia in guerra con l’Austria-Ungheria e portò la Quarta Guerra d’Indipendenza nella più ampia cornice di quella che sarebbe poi stata chiamata la Prima Guerra Mondiale. Una guerra per le terre irredente, cioè non ancora liberate dall’occupazione austriaca, una guerra per gli italiani del Trentino e dell’Adriatico orientale. Per Trento e Trieste, ma anche per l’Istria e la Dalmazia, cui poi si sarebbe aggiunta Fiume. Una guerra per completare uno Stato unitario e per riunire gli italiani in uno Stato nazionale.
Una guerra che l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, gli esuli istriani fiumani e dalmati ed i loro discendenti ricordano come momento in cui lo Stato italiano maggiormente si impegnò per l’italianità adriatica, a costo di immensi sacrifici umani e materiali.
Lorenzo Salimbeni