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La Grande Guerra vista da Gorizia (Il Piccolo 29 ott)

GORIZIA «Gorizia non è il nome di una vittoria ma il nome di una comune sofferenza», disse Giuseppe Ungaretti nel 1966 dall’alto del colle del San Michele, la pietraia di cui aveva fatto esperienza cinquant’anni prima. Una comune sofferenza nata agli albori del Novecento e che è proseguita nel corso del secolo, in una città continuamente contesa e più volte redenta a causa del suo ruolo di cerniera linguistica e culturale. E ideologica per molti periodi.

Oggi questa comune sofferenza non c’è più. Sono spariti i blocchi confinari, nessun cambio di valuta, niente davvero da dichiarare. E fra pochi giorni scade l’anniversario di questa storia senza fine, la fine della Grande guerra, della «guerra europea», come la chiamava Hemingway. A novant’anni di distanza ci si ritrova senza fanfare: «C’è piuttosto da far capire la tragedia, il senso e il non senso della guerra; sono passati novant’anni e dobbiamo esser in grado di guardare a quanto accaduto…», dice Antonio Devetag, assessore alla cultura del comune di Gorizia, la città che a buon motivo si sente depositaria delle memorie di una guerra ormai lontana ma così presente non solo negli esiti statuali ma anche negli oggetti, nelle foto di famiglia, negli strafanicci di casa. Quasi a dire che la guerra del ’15-’18 è sempre lì, è come una nebbia che non vuole abbandonare le terre che per un secolo ha avvolto.

Il Comune di Gorizia, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, ha predisposto un ricco calendario di appuntamenti che vanno dalle mostre ai concerti, dalle visite guidate alle rassegne filmate con materiali d’epoca. Va ancora detto che alla ricca offerta di iniziative del Comune se ne sono aggiunte altre di associazioni private, a ulteriore dimostrazione sia del peso assunto dall’anniversario che della vitalità culturale del territorio. Lunga la lista.

La mostra «1918: la Vittoria» sarà inaugurata lunedì 3 novembre, 17.30, nella sala degli Stati provinciali del Castello di Gorizia: l’esposizione ripercorre l’ultimo anno del conflitto mondiale, dal Piave alla vittoria del 4 novembre 1918. Rari documenti, preziosi cimeli, fotografie inedite unitamente a reperti bellici, le bandiere innalzate su Udine e Gorizia riconquistate, lo spartito originale dell’«Inno del Piave» di E. A. Mario. Lo stesso Castello, sala delle Carceri, ospita un’altra esposizione dedicata a «Il Castello di Gorizia nella Grande guerra: storia di un maniero risorto»: si tratta di un percorso espositivo con riproduzioni fotografiche del Castello in cinque distinti periodi, dal periodo prebellico, all’occupazione italiana, alla riconquista austriaca ed al periodo postbellico.

Nella sala del Conte, sempre in Castello, il conflitto bellico viene riproposto con gli occhi di un pittore: e sono 19 quadri di «Italico Brass, reporter della Grande Guerra»; a disposizione anche una cartella di 15 dipinti eseguiti dall’artista fra il ’15 e l’agosto del ’16, data della presa di Gorizia. L’occhio del pittore appare quello di un datato paesaggismo mentre quello di altri artisti, che in Gorizia operavano e che da lì avevano dovuto scampare, era già quello delle avanguardie; restano, quelle di Brass, testimonianze importanti. Così come importanti restano le testimonianze cinematografiche, previste per giovedì 6 novembre, ore 18, cinema Vittoria, con l’austriaca «Gorizia distrutta» del 1916, «Umanità», 1919, di Elvia Giallannella, e «Gloria», 1921.

Un’altra mostra di rilievo si apre oggi, alle 18, ai Musei provinciali di Borgo Castello, ed è dedicata a «Diaz, dalla Libia a Vittorio Veneto», al generale della vittoria il cui fondo, documenti, fotografie, medaglie, è in dotazione ai Musei goriziani.

Altre mostre, che si collegano a quelle organizzate dal comune, sono già aperte. Alle scuderie di villa Crononini Cronberg c’è quella, stupenda, su «Le crocerossine nella Prima Guerra mondiale»: documentazioni fotografiche, giornalistiche ma anche attrezzi chirurgici del tempo e la ricostruzione di un «ospedale attendato». Nella stessa sede di villa Coronini si apre una mostra di cinquanta fotografie di Arnaldo Grundner che ripercorrono i luoghi del disastro, il Carso e Monte Nero, Tolmino e Pontebba, e i cimiteri nel bosco e le incisioni sulla pietra di chi in vita poteva lasciare solo quell’ultimo segno. Altra notevole mostra è quella predisposta dall’associazione Isonzo su «1918, dal Piave a Gorizia», visibile sino all’11 novembre all’Auditorium di via Roma: foto, uniformologia, oggettistica a ripercorrere, coi materiali d’epoca, l’ultimo anno del conflitto. Quel 1918 in cui un quotidiano goriziano, L’Eco del Litorale, si domanda «Che diranno di noi nel 2000?» e si risponde: «Mi pare di vedere in sogno i giornalisti del secolo venturo in cerca di curiosità da dare in pasto ai loro lettori. Per noi sarà riservato certo un senso di profonda commiserazione. Diranno che ci mancava tutto, viveri e vestiti, ma che la guerra continuava allegramente come se nulla fosse. Si viveva a base di surrogati, si vestiva e si calzava a base di carta. Diranno che uomini armati fino ai denti ed a pancia vuota lavoravano a sbudellarsi allegramente. Ci chiameranno pazzi da catena».

Era sempre quel 1918 che si conclude, per Gorizia, con un manifesto del Governo provvisorio della Provincia, datato 6 novembre, che dice: «Nell’impeto della gioia scordate ogni rancore e con persone di nazionalità diversa conservate un contegno corretto e dignitoso. Siano i fratelli che abbracciano i fratelli». Eran solo novant’anni fa.

Sandro Scandolara

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