Rileggere nelle pagine del ” Fatto Quotidiano” un interessante articolo-intervista, a firma di Tommaso Rodano, al grande teologo italiano Severino Dianich, mi ha sostanzialmente, rinfrancato con la fede e la testimonianza cristiana da dare in momenti drammatici come questi ove sembra che la guerra, ormai, imperversi dappertutto. Un’intervista, che è anche un racconto di vita.
Severino Dianich, non è uno qualunque. Si tratta, infatti, di una delle più insigni figure teologiche italiane. Innanzitutto per la sua storia personale, profondamente legata a quella dell’Esodo delle popolazioni italiane dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. È, infatti, originario di Fiume, e viene da una famiglia istriana traferitasi poi a Fiume dove lui e suo fratello Antonio sono, poi, nati. Da bambino ha frequentato l’oratorio del Duomo e maturato la sua precoce vocazione al sacerdozio che lo accompagnerà e guiderà anche nei momenti drammatici dell’Esodo italiano, cui con la sua famiglia sarà costretto. La famiglia, pertanto, conoscerà anche la dura realtà dei campi profughi italiani, cui verrà costretta per ben cinque anni.
Lui, invece, continuerà il suo percorso vocazionale a Pisa, con l’assenso dell’allora arcivescovo mons. Camozzo, già vescovo di Fiume. Un percorso che lo porterà al Baccalaureato, alla Licenza ed al Dottorato in Teologia in Gregoriana a Roma, con tesi sull’ “Opzione fondamentale nel pensiero di S. Tommaso d’Aquino”. Dal punto di vista pastorale, dal 1966 al 1992 è stato parroco nell’antica Pieve di Caprona (Pisa), per poi venire nominato, sempre all’ interno della medesima arcidiocesi, vicario episcopale per la cultura ed il dialogo. Attività e compiti che ha sempre svolto con grande apprezzamento, alternandole alla feconda ricerca teologica svolta con corsi e seminari in tutta Italia ed in vari Paesi e culminata con la pubblicazione di circa 170 lavori.
Severino Dianich, quindi, quando parla di guerra, non è uno qualunque perché l’ha vissuta e ne è stato vittima con l’Esodo giuliano dalmata. In più vi aggiungo anche una mia piccola nota autobiografica, avendolo conosciuto personalmente durante uno dei tanti ritiri spirituali organizzati ai tempi della Cattolica, quando, sotto la guida di mons. Carlo Ghidelli, allora assistente ecclesiastico generale e poi futuro vescovo di Lanciano, andammo a fargli visita proprio in quell’eremo di Caprona. Momenti belli, densi e significativi, che sono tutti emersi nella rilettura, in senso teologico, del pezzo di Rodano.
In sostanza, con riferimento al caso ucraino, don Dianich, afferma che “inviare armi è etico solo se si può vincere, altrimenti è inutile strage”. La sua è, quindi una riflessione proprio sui limiti morali di una resistenza armata. E lo fa per reagire a quella che, secondo lui (ma non solo), all’ interno anche del mondo cattolico, sta diventando una certa “mistica” della difesa armata, invocata da più parti. Nel concreto il teologo fiumano cita espressamente il Catechismo della Chiesa Cattolica, osservando che il preciso riferimento alla cosiddetta “difesa armata” sia sottoposto all’osservanza pedissequa di un aggettivo: rigoroso. Lo cita espressamente il n. 2309 del Catechismo della Chiesa Cattolica nella parte in cui “si raccomanda di considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale”. Ed una di queste è la “fondata condizione di successo”.
Si capisce, quindi, bene come don Dianich, a fronte anche di più voci, provenienti perfino da certo mondo cattolico propenso, più, “a far la pace con la guerra”, ci porti alla realtà delle cose, interrogandoci anche come credenti. “L’Ucraina aggredita”- è la sua domanda- “ha davvero fondate speranze di successo?”. Ed eccoci, quindi, arrivati al primo punto scivoloso e dirimente: l’immolazione collettiva di un popolo, per una causa che, seppure possa essere buona, è destinata a perdere, cristianamente, non trova giustificazione. Tale giustificazione, in passato, è avvenuta solo quando vi è stata una divinizzazione di un Ideale politico. Il teologo prosegue nella sua analisi citando l’adagio latino “Fiat iustitia, pereat mundus”. Ossia, tradotto, l’accendersi di un grande desiderio di giustizia, a fronte di un attacco armato, può essere comprensibile. Non è comprensibile, invece, cristianamente, un progetto politico che voglia acriticamente soddisfarla. Al di là di tutto, quindi, visto alla luce di questa lettura teologica, l’invio europeo di armi all’Ucraina, in queste condizioni, dal lato proprio dell’etica cristiana, dimostrerebbe l’intenzione di continuare a prolungare il conflitto con l’incalcolabile ed inconsiderato aumento del numero di morti. In tal senso, allora, il ritorno al Vangelo, per don Dianich, diventa d’obbligo, quando in una delle parabole di Gesù, si fa riferimento anche ad un re che, prima di entrare in guerra, valuta se possa combattere con un esercito di mille soldati, contro uno di venti mila.
E la “chiusa” finale su Bertold Brecht cade quanto mai “a pennello”: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Con un ammonimento finale: “Quando questo popolo ci chiede di partecipare alla sua resistenza, la decisione ricade anche sulle nostre coscienze”. Facciamolo nostro concretamente.
Gianraimondo Farina
Fonte: Tottus in Pari – 15/03/2022
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