«La villa di campagna nella tenuta dalla nonna a Zabodaski era un sogno, con una baia privata che ci permetteva l’accesso al mare». Si tronca violentemente nel 1945 anche la saga quarnerina dei Martinoli, armatori e costruttori di navi e yacht ammirati in tutto il mondo, costretti ad abbandonare Lussino. In quella casa da sogno, come la ricordano oggi da Trieste Caterina detta “Tinzetta” e Doretta Martinoli, si insedia uno dei principali “gerarchi” di Tito, Vladimir Velebit. Contemporaneamente Edvard Kardelj, numero due del Partito comunista jugoslavo s’impossessa di un’altra villa, quella di Girolamo Rizzi, sposato con un’ebrea polacca non certo sospettabile di simpatie fasciste. L’intera Lussino diventa buen retiro della nuova nomenklatura jugoslava: arrivano Janez Stanovnik, poi presidente della Slovenia dal 1988 al 1990 e oggi a capo dell’Associazione dei partigiani sloveni che occupa la casa di Ivetta Luzzato Fegiz, mentre il diplomatico Dragan Naiman si insedia nella residenza di campagna dell’ammiraglio e olimpionico Tino Straulino. Così nell’immediato dopoguerra, Kardelj e Velebit, due più fanatici nazionalisti, mentre nelle trattative tentano di annettere anche Trieste alla Jugoslavia, impunemente occupano case di lusso su cui non possono legalmente vantare alcun diritto. «É proprio questo ciò che mi fa più rabbia», commenta oggi Tinzetta. Velebit ha continuato ad abitare per alcuni mesi all’anno quella casa fino alla sua morte avvenuta nel 2004 quando aveva 97 anni. Secondo lo storico americano Mehta Armstong Coleman, Velebit è stato l’uomo di contatto tra la Cia e Tito in nome di quel patto segreto che garantì a Belgrado l’appoggio statunitense nel ruolo di stato cuscinetto rispetto al Patto di Varsavia, ma che contemporaneamente alzò una cortina su tutti gli orrori commessi dal comunismo jugoslavo.
Per potersi insediare nelle neoconquistate “dacie” gli uomini dell’establishment titino fanno dichiarare i proprietari “nemici del popolo”. Il tribunale distrettuale di Lussino raccoglie il 16 aprile 1948 la dichiarazione di tale Ivan Krpesic il quale afferma che Nicolò Martinoli portava l’uniforme fascista e la sciarpa con il fascio littorio. Il giorno dopo lo dichiara nemico del popolo e ordina la confisca di tutti i suoi beni. «Mio padre era stato anche podestà – spiega la figlia – e sulla fascia tricolore che portava c’era il fascio. Quello di podestà era un titolo onorifico senza remunerazione fregiava le persone più in vista, lui non ha mai voluto saperne della politica». I Martinoli erano proprietari anche di Villa Maria, loro usuale residenza a Cigale, e poi di una casa in via D’Annunzio 64, nel centro di Lussinpiccolo. E ancora, azionisti di una cava di marmo sull’isolotto di San Bartolomeo nei pressi di Fasana. Alla fine degli Anni Trenta, Nicolò Martinoli pensò di diversificare le proprie attività imprenditoriali e, dopo aver venduto il cantiere, acquistò tante piccole aziende agricole per complessivi 1.200 ettari disseminati in tutta l’Istria con l’obiettivo di importare nella penisola una produzione agricola all’avanguardia. Un altro sogno spezzato dalle confische, questo sul nascere.
Silvio Maranzana
“Il Piccolo” 6 novembre 2011