La recrudescenza di maggio della “Titostalgia”

Il crollo del muro di Berlino destò molte aspettative e speranze, soprattutto nell’Europa orientale, e nel mondo occidentale ci fu chi preconizzò addirittura la fine della storia in virtù della vittoria nella Guerra fredda della liberaldemocrazia. L’applicazione di nuove ricette economiche ai Paesi che uscivano da quarant’anni di regime socialista si rivelò spesso traumatica, nonché fonte di lucro e di speculazioni con riferimento alle privatizzazioni degli apparati industriali che erano stati di proprietà statale ed alla liberalizzazione di un sistema in cui assistenzialismo e stato sociale erano serviti ai regimi sostenuti da Mosca ad ampliare la propria base di consenso interno.

L’impatto di tali riforme, spesso traumatiche ed accelerate, comportò dei costi sociali rilevanti, che da un lato portarono all’ascesa elettorale di movimenti nazionalisti tornati in auge dopo decenni di dittatura comunista e dall’altro si rifletterono nel mantenimento di quote elettorali significative per i partiti che avevano raccolto l’eredità dei precedenti gruppi di potere, ostentando l’adesione ad un modello socialdemocratico. Quest’ultimo aspetto si tradusse in una diffusa nostalgia nell’opinione pubblica per lo status che i vecchi regimi avevano assicurato fino alla crisi degli anni Ottanta. Nei Länder della ex Repubblica Democratica Tedesca assorbiti dalla Germania federale tale sentimento ha preso il nome di Ostalgie, cioè nostalgia per la vecchia Ost Deutschland (Germania orientale), mentre la Jugostalgia cominciò a diffondersi nei paesi della ex Jugoslavia, che, a causa delle guerre degli anni Novanta, furono quelli che subirono probabilmente le peggiori conseguenze dall’implosione delle dittature comuniste.

In questo caso specifico la percezione del “si stava meglio quando si stava peggio” si esprimeva nei confronti di una condizione che la politica ondivaga del regime poteva assicurare, oscillando tra riavvicinamenti al Cremlino, pur restando coerente alla via jugoslava al socialismo declinata secondo l’autogestione, e partnership economiche con le potenze occidentali, che garantivano prestiti ed investimenti esteri diretti. Il rimpianto per quel relativo benessere, soprattutto a confronto con le condizioni di arretratezza e devastazione in cui si trovava la nascente Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale, si è tramandato alle nuove generazioni ed ancora oggi la figura di Josip Broz detto Tito, padre e padrone della Jugoslavia federativa, gode di una sorta di culto della personalità che tocca il suo apice a inizio maggio, allorchè ricorrono le sue date di nascita (7 maggio 1892) e di morte (4 maggio 1980).

Uno degli esempi più eclatanti di quella che potremmo chiamare “Titostalgia” è la persistenza di enormi scritte “Tito” delineate disponendo da parte di privati pietre su propri terreni in rilievo e perciò ben visibili anche a distanza. Una di queste sovrasta addirittura Gorizia ed è ben marcata su un fianco del monte Sabotino, luogo simbolo dei combattimenti della Prima guerra mondiale in questa zona e stride con il clima di collaborazione transfrontaliera che ha portato alla vittoria congiunta di Nova Gorica e Gorizia come Capitale Europea della Cultura 2025. Ma non è l’unica ed una mostra fotografica, che è stata recentemente inaugurata al Goriški muzej di Kromberk presso Nova Gorica, ha analizzato nel dettaglio il contesto in cui campeggiano 15 delle 25 scritte “Tito” che risultano ancora presenti nella ex Jugoslavia. La maggior parte di queste si trovano in Slovenia, vicino al confine con l’Italia, in quanto «Tito è visto come il liberatore degli sloveni dal giogo del fascismo italiano» [Il Goriziano]. E proprio nella regione attualmente definita come Litorale, oltre ai manufatti fissi, c’è una scritta Tito che appare a Villa Decani in concomitanza con l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa (notte tra 8 e 9 maggio) ed è realizzata con torce disposte in cima ad una collina in maniera tale da rendere la scritta ben visibile nella notte pure da lontano [Radio Capodistria].

Si tratta di immagini che colpiscono duramente chi ha patito restrizioni alla propria libertà negli anni del titoismo e chi ha subito lutti ed è stato costretto ad abbandonare la propria terra come la comunità italiana autoctona dell’Adriatico orientale, per la quale risultano inoltre difficili da accettare le attestazioni di stima che Tito continua a ricevere pure in Italia, sorvolando bonariamente sulle stragi che hanno portato alla nascita della dittatura titina, anche a scapito di istriani fiumani e dalmati: incidenti di percorso verso le meravigliose progressive sorti. A proposito delle stragi titine delle foibe, a Trieste quest’anno nel corteo sindacalista del primo maggio si sono infiltrati meno nostalgici dell’invasione jugoslava di Trieste avvenuta in quella data nel 1945. Magra consolazione. 

Pensando, infine, al solenne funerale del padre e padrone della Jugoslavia (crollata dieci anni dopo la sua morte), porta ancora sofferenza a tanti giuliani, esuli e loro discendenti l’irrituale bacio alla bara di Tito da parte del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Si trattò di un gesto che nessuno dei Presidenti e sovrani presenti fece e che la visita alla Foiba di Basovizza del suo successore Francesco Cossiga (primo Capo dello Stato a compierla) parzialmente compensò, avviando un percorso di riavvicinamento delle istituzioni al mondo della diaspora adriatica che avrebbe portato all’istituzione del Giorno del Ricordo. Si sarebbe successivamente giunti anche alla visita congiunta del Presidente Mattarella e del suo omologo sloveno Borut Pahor alla Foiba di Basovizza. È stato un gesto di distensione e di riconoscimento di quanto subito da sloveni e italiani dalla dittatura comunista che vale molto più delle ostentazioni e dei reducismi degli ultimi nostalgici di un regime le cui nefandezze sono state dal Parlamento europeo equiparate ai crimini nazisti. Perché anche se amico degli Stati Uniti, partner dell’Europa occidentale, leader dei Non Allineati e legato all’Unione Sovietica da un rapporto di amore/odio, Tito alla stella rossa mai ci rinunciò.

Lorenzo Salimbeni

A Villa Decani – Foto: Radio Capodistria

 

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