“Migrazioni e integrazione. Il caso degli albanesi a Venezia (1479-1552)” è un saggio di Lucia Nadin, che ha trascorso un lungo periodo di studio e lavoro in Albania – sia presso l’Istituto Italiano di Cultura di Tirana che all’Università di Tirana – e che apre la collana “Contesti Adriatici” della Casa editrice Bulzoni di Roma.
La collana nasce all’interno delle attività del Progetto Albania – un progetto di cooperazione internazionale dell’Università di Firenze – caratterizzato da una vasta e variegata serie di iniziative. La collana raccoglie studi e ricerche di ambiti disciplinari diversi che catalizzano la loro attenzione sull’area dell’Adriatico, un’area geografica ricca di antiche e moderne complessità politiche a antropologiche. L’intento della collana, non solo scientifico, vuol favorire la possibilità di rispondere agli interrogativi del presente di Paesi che stanno per entrare nell’Unione europea ed è aperta ad accogliere suggerimenti e contributi di studiosi di diversa formazione: letterati, economisti, storici e operatori culturali.
L’autrice ha scelto come data di inizio del suo libro il 1479, anno della cessione della città albanese di Scutari ai turchi dopo aver subito a poca distanza di anni due assedi. Scutari, sotto il dominio veneziano dal 1396 al 1479, era una postazione chiave per i commerci veneziani, collegata al mare da una rete fluviale ed un centro di smistamento dei traffici dei Balcani.
Alla liberazione della città dall’assedio del 1474 di Maometto II – legata alle gesta eroiche di Antonio Loredan – seguì, dopo il successivo assedio del 1478, per gli interessi veneziani di concludere la guerra, la cessione di Scutari ai turchi con una pace stipulata da Venezia nel gennaio 1479 e solennemente proclamata in Piazza San Marco il 25 aprile dello stesso anno.
In vista della capitolazione, il Senato veneziano aveva scritto a Antonio da Lezze, capitano a Scutari, circa la sorte della popolazione: “Abbiamo convenuto che ciascun cittadino sia libero di rimanere in casa sua oppure di venire da noi, nelle nostre terre, per vivere sotto l’ombra nostra. Per quelli che decideranno di restare non mancherà comunque la nostra riconoscenza e il nostro amore e sempre li avremo per carissimi. Tutti quelli che vorranno partire e venirsene da noi, saranno da noi recolti, favoriti e accomodati con particolare carità e benignità e sempre li proteggeremo, affinché le loro famiglie possano vivere sotto la nostra protezione come ha meritato la sua fede e constantia. Quanto rimanesse di vettovaglie, prima della consegna della città ai turchi, dovranno essere distribuite fra quelli nostri fedelissimi sudditi che volessero rimaner. Intanto il da Lezze faccia pervenire l’elenco di tutti coloro che lasceranno Scutari per Venezia, specificando gradi e professioni, così da programmarne l’accoglimento, in rapporto allo stato di ognuno. Continuiamo a considerare Scutari carissima, per la sua grandissima importanza in Albania”.
Nei patti si specificava, a vantaggio di entrambe le parti, che “zentilhomeni merchadanti delle galie et nave… et homini venientes, stantes et redeuntes o per mare o per terra” sarebbero stati sicuri “da ogni molestia”.
Ai cittadini albanesi di Scutari, di Drivasto (una città vescovile sulle montagne non distanti da Scutari) e dei borghi vicini che scegliessero di non restare sotto il dominio turco, Venezia dava quindi la possibilità di partire per trasferirsi sotto la protezione del Gonfalone di San Marco. Fu in conseguenza di quell’episodio che si registrò il massimo di emigrazione albanese verso l’altra sponda dell’Adriatico, picco di una parabola che era stata in crescita lungo tutto l’arco del ‘400.
Dal 1479 ai primi decenni del ’500 gli albanesi scutarini e drivastini completarono il lungo periodo di integrazione che comportò un loro diffuso insediamento non solo nella Dominante, ma anche nelle terre del Dominio: ciò in base alla condizione sociale dei rifugiati e ai loro mestieri.
Interessa in particolare all’autrice la politica di accoglienza della Serenissima, il destino delle donne, dei bambini e degli uomini scampati agli eventi bellici. Il saggio segue le loro vicende e il processo di integrazione nel tessuto socio-economico veneziano ed illustra i contributi albanesi alla cultura umanistica veneziana.
I documenti d’archivio conservano puntuale cronistoria dei provvedimenti a favore delle donne scutarine e drivastine e dei loro figli, fin tanto che erano in vita e i secondi raggiungevano l’età per ottenere una opportuna sistemazione. Ogni cinque anni, a partire dal 1479, si rinnovavano le liste degli aventi diritto. Alle donne era corrisposto un regolare assegno mensile ed alle figlie era dato, in caso di matrimonio, un aiuto specifico per costituirne la dote.
Attorno agli anni 1515-1520 si chiude la generazione dei sopravvissuti agli assedi di Scutari e dei castelli limitrofi e dunque anche la politica di specifico sostegno da parte dello stato veneziano. Scutari, con Drivasto sede vescovile, aveva rappresentato nel ’400 una vera e propria enclave del cattolicesimo in Albania e l’Albania aveva svolto una funzione di appoggio all’occidente cristiano. Nel nord dell’Albania sin dal’200 erano presenti i grandi ordini religiosi (benedettini, domenicani e francescani). A Venezia, divenuta centro di smistamento di profughi che lasciavano le terre di origine di fronte all’avanzare dei turchi, erano numerosi i sacerdoti che provenivano dall’area dalmata e albanese. Gli ultimi a lasciare Scutari capitolata ai Turchi sarebbero stati proprio gli uomini di chiesa che recavano con sé “i sacri arredi delle chiese”.
Il Senato della Repubblica, con la tipica tempestività che caratterizzava il governo veneziano, il 14 maggio 1479 deliberò di affrontare il problema degli ecclesiastici albanesi emigrati, per deciderne la collocazione. Interessante l’elenco stilato dall’autrice di questo saggio dei presbiteri e delle sedi loro assegnate a Venezia e in Terraferma.
Il gruppo nazionale albanese, di religione cattolica, che faceva capo a Venezia alla chiesa di San Maurizio, attorno al 1530 promuoveva l’abbellimento della propria Scuola adiacente a quella chiesa. Nel 1552 commissionava una copia di lusso (purtroppo andata perduta e della quale esiste una copia settecentesca) della propria Mariegola, il libro che regolava la gestione e il funzionamento del sodalizio.
E Lucia Nadin ha scelto questa data come termine “ad quem” del proprio libro, come anno simbolico della avvenuta integrazione nella Repubblica della comunità albanese profuga da Scutari e dalle città vicine. La postfazione del volume “Cenni storiografici sui rapporti tra Italia e Albania” fornisce un approfondito resoconto degli studi albanologici in Italia. L’interesse per il Levante è tradizione connaturata alle ragioni storiche che per secoli dettarono la politica economica di Venezia in Adriatico.
L’anima più propriamente culturale di quella storia fu l’Università di Padova, meta secolare di numerosi illustri stranieri provenienti dai Paesi balcanici e danubiani. Data emblematica è in questo caso il 6 febbraio 1936, quando Carlo Tagliavini, assumendo la cattedra di Padova di Glottologia, teneva una prolusione solenne, pubblicata col titolo “La lingua albanese”. Fondava quindi un Seminario di Filologia Balcanica e iniziava un corso di Lingua e Letteratura albanese, dando alle stampe già nel 1937 due importanti contributi. La sua scuola si apriva dalla specificità prettamente linguistica a orizzonti più variegati di storia, di arte, di politica, di economia.
L’interesse per l’Albania chiamava in causa tutta la terra dalmata e quella greca: negli anni sessanta Tagliavini creava una Collana di studi sull’Europa orientale.
Fra i suoi scolari più illustri, Giovan Battista Pellegrini proseguiva all’Università di Padova il corso universitario di Lingua e Letteratura albanese.
Lucia Nadin ricorda un illustre studioso cui si deve un grandissimo contributo agli studi di albanologia. Padovano di origine – Giuseppe Valentini – pressoché negli stessi anni in cui operava Carlo Tagliavini, dopo essere entrato nel 1919 nella Compagnia di Gesù, si trasferì a Scutari iniziandovi una carriera di docente in scuole di vario grado. Costretto nel 1943, dopo una ventennale permanenza in Albania, a lasciare il Paese a causa degli eventi bellici, fu a Roma e quindi a Palermo, dove divenne professore ordinario di Lingua e Letteratura albanese in quella Università. Una appassionata attività di ricerca, condotta fino alla vigilia della morte nel 1979, confluiva in lavori numerosi e ponderosi: ricerche di arte, di religione, di costume, di letteratura e di storia. La sua opera fondamentale sono gli Acta Albaniae Veneta saec. XIV-XV, preziosissima raccolta di documenti d’archivio, riferimento ineludibile per chi si occupi di rapporti storici tra Venezia e Albania nel ‘300 e nel ‘400: con lui nasceva la storiografia scientifica albanese.
Mi piace ricordare che Padre Giuseppe Valentini S.J. fu uno dei più assidui collaboratori della Rivista mensile del Turismo albanese “DRINI” – pubblicata dal 1940 al 1943 a Tirana dalle edizioni “DISTAPTUR” – con una serie di articoli “Passeggiate storiche nell’Alta Albania”, anche oggi di grande interesse.
L’autrice prosegue la sua rassegna con altri importanti contributi: citiamo soltanto – per brevità di spazio – la studiosa francese Brunehilde Imhaus che nel libro “Le minoranze orientali a Venezia – 1300-1510” ricercò in particolare le presenze albanesi nella vita lavorativa veneziana. Altro importante contributo alle vicende storiche di quel periodo è il saggio di Oliver Jens Schmitt, “Das venezianische Albanien (1392-1479)” pubblicato a Monaco di Baviera nel 2001. Chiudiamo questa brevissima rassegna bibliografica con il recente libro sulla presenza degli stranieri a Venezia di Andrea Zannini, “Venezia, città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII secolo”, Venezia 2009. Una ricca iconografia e l’Indice dei nomi completa il libro.
Franco Tagliarini
www.balcanicaucaso.org / 7 dicembre 2011
Lucia Nadin,
Migrazioni e integrazione.
Il caso degli albanesi a Venezia (1479-1552)
Bulzoni Editore, Roma 2008, pp.241