Mettiamo che un grande regista, tipo Miloš Forman, si innamori de La distrazione, ultimo romanzo di Enzo Bettiza. C’è da scommettere che aprirebbe il suo film in campo lungo: isola dalmata di Brazza, giallo ocra delle case, tamarindi e ulivi, mare. Quindi, come all’avvio di Amadeus, in primo piano apparirebbe un vecchio: non però il musicista Salieri, ma un picaro mascalzone, spia dai molti nomi, traditore per mestiere e vocazione, vagabondo internazionale
giunto all’ora notturna del suo novantesimo compleanno proprio mentre scade il secondo millennio. Discendente di armatori, il senzapatria Peter Jarkovich ha ripreso il suo nome originale perché sa di essere al tramonto, sente il richiamo delle radici.
Incapace di servire fino in fondo un solo padrone, sacrificarsi per una sola ideologia, restare fedele a un solo amore, ora vorrebbe tornare ad essere sé stesso. Con queste parole Dario Fertilio inizia ad effetto sul Corriere della Sera la sua recensione dell’ultima fatica letteraria dello scrittore dalmata di lingua italiana, Enzo Bettiza.
Ma tornare ad essere sé stessi è un’impresa tutt’altro che agevole, quando si nasce in
una terra di frontiera, spaccati tra identità diverse e in particolare tra lingue diverse. Si dice che i bambini bilingui dalla nascita, che imparano cioè a parlare dando nomi diversi alla stessa cosa, saranno aperti, recettivi, intuitivi. Ma più di altri, sottolinea Nicoletta Tiliacos, nella vita adulta – per aver chiamato con nomi diversi la stessa cosa nell’età in cui si fondano le certezze –
rischiano l’insicurezza, lo straniamento, la malinconia.
Che sia di questa natura, il fenomeno ricorrente nella vita del protagonista dell’ultimo romanzo di Enzo Bettiza, intitolato “La distrazione” (Mondadori, 495 pagine), si chiede Nicoletta Tiliacos. Un personaggio tri, quadri e pentalingue, da buon figlio dell’impero austroungarico “entrato nel mondo quattro anni prima dello scoppio della Prima guerra mondiale”? Facciamo dunque la conoscenza del dalmata Peter Jarković – nato il 31 dicembre del 1910 – al passaggio del millennio, nella notte di capodanno tra 2000 e 2001. Il suo cognome, dopo aver perso l’originario assetto di Jarcovich, a un certo punto era diventato Jarko, dopo essere stato russificato in Jarkov, così come Peter era diventato Pietro, Petar, Pëtr.
È direttamente lui, l’uomo al centro di tanti slittamenti vocali ed esistenziali – ex agente bolscevico, spia e dinamitardo riluttante, laureato ingegnere a Vienna ed esperto di esplosivi, commissario politico cominternista nella Spagna della guerra civile – a presentarsi al lettore come un novantenne “uscocco”, che vive solitario nell’isola di Brazza, di fronte a Spalato. Peter
è sensibile, però, alle grazie della florida Delkica, la donna che lo aiuta in casa, la “serva laboriosa” che all’improvviso, dopo due anni, ha acceso il suo sangue uscocco e lo ha costretto a ripensare a tutta la sua vita, vissuta “a lungo come un picaro misterioso e recidivo lungo frontiere più vicine al male che al bene”.
Peter, rileva sempre Nicoletta Tiliacos, è un malinconico incline al mimetismo e all’elusività, più che un completo, tragico, faustiano mascalzone. Un mascalzone assoluto, infatti, non avrebbe ceduto, come lui, alla “distrazione”. Ma per un prolungamento di svagatezza
adolescenziale; per aver dimenticato il luogo d’appuntamento con la focosa amante viennese e averla cercata nel posto sbagliato; per non essere riuscito a sottrarsi, lì, all’incontro con gli amici cospiratori di un suo conoscente, il professore socialista Harsek… per quella dannata “distrazione”, insomma, Peter Jarkovic, ventitreenne rampollo di una dinastia decaduta di costruttori navali, si ritrova agente di Mosca, arruolato nei ranghi dell’Oms, sezione del Komintern incaricata dei collegamenti con l’estero.
Siamo negli anni che preludono all’Anschluss, mentre nella Russia staliniana impazzano i processi autofagi ai quali non sopravviverà nessuno della vecchia guardia bolscevica. È, questo di Bettiza, ribadisce Nicoletta Tiliacos, un vero romanzo – va detto, in epoca di raccontini esangui – che mescola l’ispirazione koestleriana di “Buio a mezzogiorno” con atmosfere alla Mann (Peter, dopo l’addestramento russo, torna a Vienna in crisi di identità ed è ricoverato nella clinica del dottor Molnar), oltre che con divagazioni bulgakoviane sull’insensatezza organizzata del mondo comunista.
L’autore ci trascina sulle montagne (anche incantate) russe di un’ispirazione fluviale, divertita, beffarda, sostenuta da una lingua ricca da far girare la testa e da spunti autobiografici.
Facciamo conoscenza, e non li dimenticheremo più, con il leninista Hamok, l’uomo-tartaruga mentore di Peter; con il dottor Molnar, che tratta le nevrosi parlando con i pazienti ma odia Freud; con il ballerino Angel Kamber, agente dell’Oms a Zagabria, incaricato di organizzare il primo attentato al quale partecipa, da artificiere, Peter Jarković; con lo stesso zio di Peter, lo “Scialiapin dei Balcani” Milan Mahanović, i cui acuti baritonali mandano in cortocircuito le lampadine: è lui l’obiettivo dell’attentato in cui è coinvolto il nipote, previsto a Zagabria durante la prima dell’opera dedicata a Zrinski, eroe croato della resistenza antiturca. E poi ci sono le donne concupite dal distratto e sensuale Peter. Da Ines, regina della pasticceria viennese Demel, alla misteriosa Ahmira, che sorveglia gli ospiti dell’Hotel Lux di Mosca, dall’infermiera callipigia Olga alla cameriera Desanka, odorosa di lavanda come le “morlacchette” compagne di giochi infantili di Peter. Amori ancillari, i soli possibili per l’uomo che non poté mai vincere la distrazione, sradicato per troppe radici. Ma Peter (Pietro, Petar, Pëtr) ha imparato che chiamare la stessa cosa in modo diverso non significa mentire. Alla fine quel che conta è “l’essenza, non l’esattezza aritmetica della memoria”.
Ma può, si chiede in questo contesto Dario Fertilio, un’ex spia arruolata dai servizi segreti sovietici permettersi d’essere sentimentale? La sua è piuttosto una contemplazione della vita con occhio asciutto e distaccato. Peter Jarkovich non rinnega le sue giravolte e i trucchi: come rendendosi conto che una vita da cospiratore consente di cambiare pelle, considera congiure e delitti alla stregua di battesimi ideologici, da cui ogni volta uscire purificati.
Da qui in poi, “La distrazione” di Enzo Bettiza sfugge a ogni parallelo cinematografico come quello tracciato in apertura e si dispiega autonomamente come un grande romanzo mitteleuropeo, sprezzante dell’attualità e dei tic contemporanei. Sono gli stessi temi e ambienti già affrontati da Bettiza nel conturbante e fluviale affresco sui Fantasmi di Mosca, qui però colti soggettivamente dal protagonista, sicché eventi storici e tragedia sovietica appaiono piuttosto sullo sfondo, mentre tendono a prevalere atmosfere e sentimenti. E qui occorre spiegare quel
che si nasconde nel titolo ingannevole, La distrazione: non solo un omaggio al caso, che pure contribuisce a determinare le svolte nella vita di Jarkovich; la distrazione è una malattia dell’anima, uno sprofondare periodico nell’indifferenza e nell’assenza, come se l’organismo del protagonista staccasse spontaneamente la corrente per prevenire un sovraccarico di emozioni.
E c’è un’ulteriore verità, sottolinea sempre Dario Fertilio sul Corriere della Sera: Jarkovich paga il prezzo della sua incompletezza, il fatto cioè d’essere, in quanto dalmata, senza patria ufficiale e privo di caratteristiche nazionali definite; non a caso durante il romanzo si esprime indifferentemente in italiano, triestino, tedesco, croato e russo, a volte mescolando tutte queste lingue. E l’alter ego demoniaco di Jarkovich, l’istruttore Hamok, mostra i segni della sua stessa malattia autodistruttiva, ormai all’ultimo stadio: il corpo gli si consuma, sparisce nelle pieghe del vestito, le sua personalità „liquida“, prensile, capace di adattarsi a tutte le situazioni che la devozione leninista prescrive, sembra ridursi a pura ombra.
Che nel personaggio di Jarkovich, nel suo passato di patrizio dalmata incapace di adattarsi a un solo destino, ci sia qualcosa dello stesso Enzo Bettiza, non può essere messo in dubbio. Persino la figura dello zio cantante d’opera, al centro della trama terroristica che attraversa il romanzo, allude all’album di famiglia dell’autore. E i vari “amori ancillari“ vissuti da Petar, con la puttanesca Olga, l’ambigua Almira (la scena erotica di cui è protagonista è un pezzo di assoluta bravura), la suicida Ines, sono sì pietrificati nel ricordo, ma suonano anche come sforzi disperati del protagonista per contrapporre un che di vitale e corporeo alle astrazioni dell’ideologia.
Romanzo a tratti stupefacente, quasi narcotico nei dialoghi di idee che rifiutano qualsiasi naturalismo, “La distrazione” si staglia come un’opera altra rispetto alle consuetudini letterarie.
L’autore, “stambecco“ in un paese abituato alle transumanze e alle greggi, si impone alle “fugaci scadenze temporali della sopravvivenza“, conclude Dario Fertilio. La
Dino Saffi
“la Voce in Più” / suppl. de “la Voce del Popolo” 11 maggio 2013