FORLI' – Echi romagnoli del quinto "Giorno del Ricordo", che si celebra il 10 febbraio in tutt'Italia. Gli studiosi stimano in 350mila gli istriani, i fiumani e i dalmati di lingua e cultura italiana che, a partire dal disarmante armistizio dell'8 settembre 1943 – Badoglio lasciò senza ordini un milione di soldati in tutt'Europa – preferirono abbandonare terre in cui vivevano da generazioni pur di non cadere nel "paradiso comunista" di Tito. Ora si fa memoria di questi poveri esuli.
Tuttavia ancora poco si sa di quanti rimasero oltre cortina. "I miei genitori – racconta una sessantenne nativa di Pola, oggi residente nella periferia nord di Forlì – non se la sentirono proprio di lasciare la città dove i ricordi di famiglia affondavano nei secoli". Fu così che il piroscafo "Toscana", inviato dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi l'indomani del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947, per condurre in Italia i polesi, ben 28mila sui 31mila che l'abitavano, il 20 marzo 1947 rivolse per l'ultima volta la prua verso Venezia, senza di loro.
Pola, la "Perla dell'Istria", famosa per l'anfiteatro e altre vestigia romane, rimase praticamente disabitata. Ci pensò Tito, di lì a poco, a slavizzarla, riempiendola di montenegrini, serbi e macedoni. La nostra testimone, nonostante viva da circa trent'anni in Romagna, ove giunse col marito, istriano come lei, ha accettato di raccontare la propria storia, ma solo sotto anonimato. E' la prova che per "i rimasti", non più di 15mila in tutta l'Istria, la Dalmazia e Fiume contro i 350mila esuli, non sono stati proprio rose e fiori. A.B. nasce da genitori di cultura italiana che Pola è già, anche se da poco, sotto il duro tallone del dittatore croato.
"Tutte le volte che Tito andava alla sua residenza estiva alle isole Brioni – ricorda la donna – transitava da Pola fendendo la folla, composta soprattutto di studenti festosi con le bandierine jugoslave in mano". A.B. può frequentare la scuola italiana imposta dal Trattato di pace a tutela della minoranza, ma imparerà compiutamente la lingua degli avi solo una volta giunta in Romagna. "In casa sentivo parlare italiano e dialetto istroveneto dai genitori, che però si rivolgevano a noi figli rigorosamente in croato".
Una volta andato in pensione dal lavoro di operaio che svolgeva in una grande industria sul porto, il padre di A.B., facendo leva su di un conoscente ufficiale dell'esercito, vera casta onnipotente della Jugoslavia di Tito, ottiene di poter coltivare il terreno di famiglia che gli era stato sottratto all'avvento del regime. Con il ricavato riesce a tirare avanti dignitosamente, sino alla fine dei suoi giorni, un paio di anni fa, lasciandosi alle spalle la dissoluzione della Jugoslavia e l'indipendenza della Croazia. A.B. si è appena comprata una casetta sulle colline di Pola, dove ritorna appena può.
"Dalla mia finestra vedo il mare e l'Arena. Sono posti meravigliosi, e io ci sono nata". Per un italiano, acquistare un immobile in Croazia è tuttora impossibile: occorrono dei prestanome locali. A.B. c'è riuscita solo perché ha mantenuto la doppia cittadinanza. E' un retaggio odioso, che la giovane nazione balcanica dovrà pur rimuovere se vorrà entrare a pieno titolo nell'Unione Europea.
Piero Ghetti