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L’altra Pola, crocevia dei destini del ‘900 (CorSera 22 dic)

Dragan Velikic : L' altra Pola, crocevia dei destini del Novecento

Esodi Il nuovo romanzo dello scrittore serbo, non ancora  tradotto, esplora una città lontanissima da quella della letteratura istriana italiana
L' altra Pola, crocevia dei destini del Novecento

Dragan Velikic indaga l' esilio personale e collettivo

Via Pola, il titolo del romanzo di Dragan Velikic, non indica il nome di una strada, bensì un transito, un passaggio di quel nomadismo interiore e materiale, personale e collettivo, di cui, nelle migrazioni di individui e di popoli, sono fatte la storia e la vita. Dublino-Trieste via Pola: così il percorso di Joyce all' inizio del secolo scorso, esempio famoso divenuto emblematico, ma in realtà uno dei tanti della città istriana, dagli antichi illiri ai romani, dai veneziani ai francesi agli austriaci agli slavi, soprattutto croati ma anche di altra provenienza. «Via», in questo senso, assomiglia quasi a un trattino tipografico, in cui si condensa il continuo errare della storia: attraversamento fugace, conquista duratura, civiltà e distruzione, radicamento ed esodo, come più volte nei secoli e in particolare alla fine della seconda guerra mondiale, quando gli italiani della città, quasi l' intera popolazione, abbandonarono Pola divenuta jugoslava con la vittoria di Tito. Nato a Belgrado nel 1953 e vissuto a lungo da bambino nella città istriana divenuta per lui una patria del cuore, Dragan Velikic ha scritto numerosi romanzi e racconti, che hanno riscosso notevole interesse in quell' area mitteleuropea cui egli spiritualmente appartiene e di cui esprime con intensità poetica l' atmosfera polivalente e spesso malata. Figlio di quella Serbia che negli anni delle guerre jugoslave è stata spesso colpevolizzata unilateralmente e di cui ora egli è ambasciatore a Vienna – forse secondo una vecchia tradizione, che ha visto pure grandi autori come Andric nel servizio diplomatico – Velikic ha duramente criticato, anche nei momenti più pericolosi, il regime di Milosevic, assumendo un' equanime posizione avversa a tutti i nazionalismi allora divampanti con furore. «Se per qualche misteriosa ragione Pola dovesse sparire dalla terra insieme a tutte le testimonianze delle sue stratificazioni storiche, il libro Via Pola di Dragan Velikic ci potrebbe offrire un' ottima base per la sua ricostruzione». Così scrive Ljiljana Avirovic, profonda studiosa e docente di teoria della traduzione e traduttrice straordinaria, non solo dall' italiano nella sua madrelingua, il croato, ma – caso rarissimo e risolto con grande felicità stilistica – pure dal croato o dal russo in italiano, e di autori di eccezionale grandezza quali – per citarne solo alcuni – Bulgakov o Pasternak. Ora si sta occupando di Velikic e della sua discesa nei gorghi di quella storia stratificata, spesso intrisa di grumi di sangue rappreso – versato per secoli di violenze – e di follia, di mali oscuri. «Dottore scendiamo ancor più in profondità», dice un personaggio al protagonista, il dottor Bruno Gasparini, neuropsichiatra, punto di incontro e luogo geometrico di tutte le storie deliranti e confuse che si incrociano nella sua persona, come se egli stesso fosse un transito di destini. Il romanzo inizia con la nuda registrazione della sua carta d' identità, ma subito esplode, come un bubbone marcescente, in una miriade di storie, figure, vicende delle epoche più varie, che si aggrovigliano simultaneamente – abolendo ogni cronologia – nelle pietre, nei palazzi solenni e corrosi, nelle rovine romane e nelle ville austroungariche come nelle pestilenze dei secoli e nelle foibe del secondo dopoguerra, ma soprattutto nella mente del protagonista. Le confessioni dei pazienti – nel vecchio palazzo Orlando divenuto manicomio – finiscono per dilatare la psiche del dottore, per fargli perdere «il senso dei rapporti spazio-temporali» (Avirovic), in un vorticare talora troppo smodato e incontrollato che trasforma il romanzo in un caleidoscopio barocco e impazzito, come lo è la fine del protagonista, divenuto assassino. La letteratura mitteleuropea e in particolare il suo versante balcanico sono spesso contrassegnati da un senso della Storia quale catastrofica fuga e morbo oscuro, che deforma e divora la realtà in una mutazione delirante, espressa in uno stile travolgente ed eccessivo, intriso di sangue, violenza e follia – si pensi, per fare solo qualche grande esempio, alla narrativa di Jancar o di Krleza e anche ad alcuni autori italiani, in particolare dalmati, parzialmente imbevuti di questo clima, come il recente e possente romanzo Il libro perduto di Enzo Bettiza. In Via Pola la vitalità è cancerosa e distruttiva. «La vita si scioglie come una medusa», la malaria corrode il corpo e la mente, la Storia sembra operare come il coltello del macellaio che squarta la bestia, gialli orizzonti malati annunciano albe di orrore, le screpolate facciate delle case ricordano il volto di un lebbroso, il vino delle osterie è portatore di cupa malinconia come il sesso, insistito, triste e feroce; le continue «trasfusioni di sangue morlacco» nelle vene delle stanche stirpi precedenti non le rinnova ma le consuma, le facce scompaiono nel fumo dei caffè, la città è un guscio vuoto di conchiglia nella cui spirale il caso porta ogni tanto un fermento di vita e i suoi strati profondi si disegnano nei lineamenti dei volti. Questa Pola plurima, essenzialmente balcanica, è lontanissima da quella della letteratura istriana italiana, in cui l' Adriatico è un soffio di gentilezza veneta. A differenza dell' ultimo romanzo di Velikic in cui il protagonista, pur anch' egli straniero nella realtà e incline a dissolversi, trova se stesso – in Via Pola soltanto ci si perde: «Mi sono perso, perso… dice Bruno».

 

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