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L’anima altrove. Le vite strappate dell’esilio istriano (Mattino di Padova 20 mag)

Al numero 23 di una strada qualunque della campagna piatta di Anzio, sul litorale romano, vive una coppia di anziani. Parlano poco o niente, non raccontano, perché nessuno li vuole ascoltare. Ma è il luogo che parla per loro: su una delle due colonne che incorniciano il cancello c’è una piastrella bianca con il disegno di una villetta rossa e una scritta misteriosa: «cuciza».

 

Una parola istriana che significa «casa». Mattone come mattone, la casa nuova è stata costruita seguendo puntigliosamente il disegno di quella amata e perduta per sempre nel 1945 in una patria che non esiste più, ma questo simulacro di appartenenza è un artificio, una forma, che non basta a riempire il vuoto terribile del cuore che non ha più dove abitare.

 

È attorno alla casa e ai luoghi perduti, attorno alle cose sottratte alla perdita e diventate memoria nell’esilio che Anna Maria Mori, giornalista e scrittrice, nata a Pola, città che sarà costretta a lasciare bambina, costruisce L’anima altrove (Rizzoli, 215 pp.), terzo e forse più sofferto volume della trilogia dedicata alla sua terra natale, iniziata con Bora, del 1999, (scritto con la polese «rimasta» Nelida Milani) e Nata in Istria (2006).

 

Un romanzo, o meglio un «postromanzo» con una struttura frammentata, in cui il tema non è più l’esodo, ma l’esilio, perché nella tragedia che travolse gli italiani del confine orientale, con la fuga di trecentomila giuliano dalmati dalla spaventosa propaganda del regime di Tito, dalla paura delle foibe e del massacro, ci fu «il prima, pieno di vita, e il dopo, in cui la vita viene sospesa dentro l’asfissia di uno stagno di malinconie, ricordi, spesso anche rancori», una cesura dolorosa in cui, scrive Anna Maria Mori, «a fare da raccordo tra quel prima e quel dopo non ci sono che le cose, un mobile, un soprammobile, un servizio di piatti, una federa bianca ricamata».

 

I ricordi un passato senza il quale il presente non è possibile perché, ricorda la scrittrice citando Joyce Carol Otes: «Siamo stati tutti felici nel posto da dove veniamo». Nella terra d’origine iniziano nel «secolo breve» le vite di Natalia e di Renzo, di Antonia e di Rosa, persone comuni con la speranza di una storia, finché la guerra finisce e l’Italia perde, ed è chiamata a pagare il prezzo della sconfitta.

 

Anzi, costretti a pagare «sono soltanto alcuni», i trecentomila che partono lasciandosi dietro ogni cosa, vengono disseminati in 109 campi profughi della Penisola e rimangono «per il resto della loro vita esuli».

 

Quello che sopravvive sono le loro case, e le loro cose, gli oggetti, che vengono chiamati a raccontare una storia rimasta troppo a lungo nascosta dalla diffidenza, e a volte dalla paura di chi aveva smarrito la propria cittadinanza, che nella Jugoslavia di Tito era considerato un invasore e nell’Italia indifferente un fascista in fuga dal regime comunista.

 

Con una invenzione narrativa, la scrittrice fa parlare la villa rossa in cui viveva Irene con i suoi genitori, quella costruita in pietra bianca del Carso nella baia di Zabodaski, quella raccontata da Nelida Milani nel capitolo Dentro le mura, racconto nel racconto di un appartamento sottratto stanza dopo stanza dai “liberatori” a Luigi e Nori, prima il soggiorno, poi lo studio, la cucina, e ogni volta una porta chiusa a chiave per allontanare il momento estremo dell’abbandono, la confisca definitiva, e l’inizio di un tempo-non tempo in cui solo le case rimaste a custodire i luoghi, cose come mobili, porcellane, gioielli, un angioletto di marmo imballati e trasportati in mille traslochi continuano a custodire l’anima, come «urne di foscoliana memoria».

 

Con un’ombra che si allunga sul presente: «Adesso che credevamo sepolti i nazionalismi, rinascono ovunque le differenze, di patria, di religione, di cultura, di razza, di storia, vissute e rivendicate un po’ dappertutto con chiusa ostinazione».

 

E mentre ognuno rivendica la propria diversità, scrive Mori, «tutto il mondo è diventato frontiera» e i nuovi esuli sono gli uomini e le donne che arrivano sui barconi.

 

Un romanzo dell’assenza e dello sradicamento, dove le parole dei due anziani sono mute e a parlare per loro resta il vocabolario delle povere cose salvate nella fuga. Vi si dimostra l’esatta conseguenza omicida di ogni deportazione, di ogni esilio coatto, quando la trasmissione culturale affoga nell’afasia del non più trasmissibile. È allora che un popolo e una cultura muoiono.

 

Maria Rosa Tomasello

“Il Mattino di Padova” 20 maggio 2012

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