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L’autentica Ragusa dell’Ottocento (Voce del Popolo 20 set)

Nell’ormai lontano 1941, a Zagabria, dieci anni dopo la morte dell’autore, furono pubblicati in volume sotto il titolo di “Immagini e situazioni di Ragusa” (nell’originale croato “Dubrovačke slike i prilike”) le memorie e gli appunti lasciati sulla città dalmata e sui suoi personaggi più tipici fra il 1800 e il 1880 dal poeta, scrittore e archeologo Josip Bersa (1962-1932). Nato a Zara, il Bersa trascorse a Ragusa l’infanzia e la giovinezza nella seconda metà del secolo Decimonono, tornando poi nella sua città ove avrebbe trascorso gli ultimi trentacinque anni della sua vita. Josip-Giuseppe Bersa era un uomo perfettamente bilingue e scrisse le sue opere (poesie, racconti e saggi di vario genere) nelle lingue italiana, croata e nel dialetto veneto zaratino. Con lo pseudonimo di Lorenzo Travasini, nel 1902 diede alle stampe la raccolta di “Sonetti zaratini”. Il libro dei suoi ricordi ragusei e degli aneddoti da egli raccolti sulla storia di Ragusa del Diciannovesimo secolo fu invece pubblicato dall’associazione patriottica croata Matica.

Nelle memorie di Bersa incontriamo i personaggi più caratteristici della superstite nobiltà ragusea, ma anche medici, eminenti intellettuali e uomini politici. Costoro, oltre che del croato oramai predominante nelle conversazioni di strada, si servono ancor sempre dell’italiano scritto e orale.

Leggendo il Bersa, ci imbattiamo in una chiesetta ortodossa sorta all’inizio del XIX secolo sul palazzo del “voivoda” Anton Sorgo, venduto per trentaduemila ducati. In quella stessa epoca appariva invece “vuota e abbandonata la casa arcivescovile in Via Montenegro”. Qualche anno più tardi “fu trasformato in un banale albergo il palazzo di Saba Giorgi, sindaco di Ragusa nel periodo napoleonico”, mentre “venivano vendute o affittate a Caio e Sempronio le ville dei Pozza, dei Zamagna, dei Ghetaldi, dei Ragnina, e di altri patrizi”. Troviamo ancora Giovanni conte de Natali, Siško Gondola, Džono Resti, Andro Pauli, il prete Dum (Don) Ivo Lupi, Clemente Menze, Ivo Gozze, Gianluca Zuzzeri, filofrancese, e Raffaele-Rafo Gozze, Orsatto Bonda, Dživo Bosdari, Nicolò Pozza, Carlo e Giacomo Natali, Orsatto Ragnina, Michele Giorgi, Tommaso Basegli ed altri antichi casati ragusei che nel Novecento saranno croatizzati. Luca Stulli, Antonio Chersa, Benigno Albertini (vescovo), Raffaele Radeglia, ed altri ancora scrivono versi in italiano e latino. Li incontriamo nel palazzo di Biagio-Vlaho Gozze trasformato in teatro nel 1824 (dopo un incendio che nel 1817 aveva distrutto il vecchio Teatro dell’Arsenale), nelle farmacie e nei saloni da barba che erano poi i “salotti di conversazione” della città, nelle ville delle case patrizie i cui salotti continuavano ad essere aperti nei pomeriggi “all’ora di caffè”.

Le «camere per visite»

Ogni casa patrizia ragusea degna di rispetto aveva una speciale “camera per visite”. Quella del conte Giorgi era tra le più note e frequentata. Quando la figlia, ultimo rampollo dell’antico casato, sposò un barone italiano, trasferendosi in Italia, il palazzo Giorgi finì nelle mani di un albergatore viennese che trasformò la casa in un albergo, appunto, con cucina e personale stranieri, per alloggiare agenti commerciali viennesi di passaggio; i preziosi mobili antichi furono rimossi, dalle pareti vennero tolti i damaschi, i broccati, le sete….
Fra le “camere per visite” rimase intatto per quasi tutto l’Ottocento il salone del palazzo Natali. Un grande lucernario d’argento, conosciuto anche come “fiorentina”, con dodici lumicini a olio, pendeva dal soffitto al centro del salone, le cui pareti erano ricoperte di damasco rosso. In un angolo spiccava un grande canapè con decorazioni dorate, tutto intorno era sparse in gran numero comode poltroncine. Nell’archivio di casa si conservavano lettere dello scienziato Ruggero Boscovich, lettere e manoscritti di Giovanni Natali, un ritratto a olio del poeta Domenico Ragnina e un rublo d’oro donato da Caterina di Russia e Francesco Saverio Ragnina, inviato a Pietroburgo come ambasciatore straordinario. Il salone rimase aperto finché visse la contessa Maria de Natali.

Si poetava in italiano e latino

Riferendosi ai primi anni dell’Ottocento ed ai cenacoli letterari di Ragusa, Bersa così scrisse nelle sue memorie:
Sarebbe lungo annoverare tutti i Ragusei che in quegli anni scrissero i loro testi letterari unicamente in latino e in italiano, ricordandosi solo raramente della loro materna lingua croata. Erano numerosissimi, (…) vivevano in un’atmosfera di idealità… Le loro riunioni erano i momenti più belli della loro vita; gli uni dedicavano agli altri i loro testi poetici. Ma i veri poeti, fra di loro, erano rari. Erano degli abili verseggiatori e uomini di alta cultura. Nei loro incontri si conversava quasi unicamente in italiano”. “Per i Ragusei colti l’italiano era in quell’epoca la lingua della cultura e il mezzo più nobile per discutere di qualsiasi argomento scientifico e, in genere, di più nobile genere. Il Raguseo, che pure in famiglia parlava senza eccezioni in croato, quando si serviva dell’italiano lasciava meravigliati anche i veri Italiani per la perfezione del linguaggio”.
Nella prefazione a un libro di Tommaso Chersa sulla vita e l’opera di Ditiaco Piro, pubblicato nel 1826, Urbano Lampredi scrisse che “a Ragusa scrivono brillantemente e correttamente in italiano coloro che hanno avuto per balia non una donna lombarda, romana o toscana, ma una balia illirica” e cioè croata. Tommaso Chersa sapeva recitare a memoria la Divina commedia di Dante, era un fecondo verseggiatore in italiano e latino.

Gli… ultimi ragusei

Quando a Ragusa moriva qualche personaggio noto, patrizio, letterato, sacerdote, armatore o altro che fosse, la gente soleva dire. “È morto l’ultimo Raguseo”. Di “ultimi Ragusei” ce ne furono molti nell’Ottocento: l’illustre medico Luko Stullis esaltato in un sonetto di Rafo Androvich, Nicolò Gradi, scrittore, il glottologo Pero Budmani, il filologo Luca Zore, il parroco Don Ivan Stojanović (+1900). Quest’ultimo, figlio di un medico, “aveva imparato l’italiano dalla nonna italiana – scrive il Bersa – e i primi libri che lesse furono le commedie di Goldoni e le vite dei santi”. Frequentò il seminario di Zara insieme a futuri sacerdoti italiani e croati, fra cui Zanoni, che sarà vescovo di Sebenico, Forlani futuro vescovo di Cattaro e autore della “Teoria delle bellezza” in lingua italiana.
Negli incontri del parroco Stojanović con i suoi molti amici ragusei capitava spesso il barone Vlaho-Biagio Ghetaldi che teneva un diario intimo in distici latini e inviava epigrammi latini all’amica tedesca Ida von Duringsfeld; c’erano ancora Luca Sorgo, epigrammatico latino e “uno degli ultimi patrizi che si riscaldarono al fuoco della libertà”, Nicolò Pozza senior che discuteva di argomenti letterari, filosofici e teologici, e il marchese Jozo-Giuseppe Bona.
Anche i più fieri sostenitori, all’epoca, del risveglio nazionale e culturale croato, si dedicavano alla letteratura italiana, traducendo in croato le opere che andavano per la maggiore. Cultore della letteratura popolare, orale, il francescano Padre Pacifico Radeljević tradusse per intero l’“Orlando Furioso” di Ariosto. Jozo Bona e Don Ivan Stojanović s’incontravano ogni mattina alle nove per scambiarsi sonetti in latino e croato e leggere insieme Tacito. Insieme poi, se ne andavano a Gravosa, nel “Caffè di Anna” per bere un “filo di bianco”, nome segreto per la grappa, seguito da un “poculum frigidulae”, un bicchiere d’acqua fresca detto in latino.

I saloni delle case patrizie

Fra i cenacoli di poeti, scrittori, filosofi, nobili ed altri personaggi ragusei dell’Ottocento, Bersa ricorda i saloni delle case patrizie Bona e Zamagna. Qui, d’inverno, almeno due volte si davano fastosi ricevimenti con danze. Le “soirées” più sfarzose e vivaci erano quelle che si tenevano in Casa Bona, il cui più giovane rampollo, Luca de Bona, era diventato ufficiale. Austriaco. Qui perciò, gli ospiti più numerosi, non erano più poeti e altri letterati, ma ufficiali, per lo più “Italiani della Lombardia e della Venezia, o altri ufficiali austriaci che in Italia avevano imparato la lingua italiana, sicché potevano penetrare – scrive il Bersa – nella società bene ragusea, nella quale era tenuto in alta considerazione la conoscenza della lingua italiana. Fra quegli ufficiali, in quell’epoca, si distingueva Zamboni, il più popolare comandante residente in Citta”.
Bersa non fornisce il nome di Zamboni, precisa però che prima degli austriaci, aveva servito fedelmente Napoleone, perdendo in Russia due dita della mano destra. Passato al servizio dell’imperatore austro-ungarico, fu mandato a Ragusa, dove prese moglie, e qui si spense. Per lungo tempo i Ragusei, dopo la sua morte, giudicavano i comandanti austriaci “prendendo ad esempio Zamboni”, le cui ossa riposano nella chiesa della Madonna della Misericordia. Ospiti della casa de Bona, oltre ai parenti della famiglia – tutti nobili delle casata Natali, Pozza, Sorgo – furono pure altri comandanti austriaci di Ragusa, i consoli dei vari Stati e, ovviamente, i pochi superstiti, ormai con molti anni sulle spalle, dell’ultimo Consiglio della Repubblica di Ragusa, fra questi Carlo Natali. Per partecipare alle “soirées” le nobildonne ragusee si facevano trasportare in eleganti portantine che andavano di casa in casa tra l’Avemaria e le nove di sera. Scomparvero appena negli anni Settanta dell’Ottocento.

Pero Budmani, un raguseo emblematico

Uno dei frequentatori più assidui dei cenacoli ragusei e grande amico dei Besa fu Pero Budmani, che meriterebbe molto di più delle poche righe che qui gli dedichiamo. Il Bersa lo ricorda come uno dei componenti del quartetto musicale che, insieme ai fratelli dello zaratino, vivacizzava le serate dei ceti “bene” di Ragusa ottocentesca. Ma Budmani fu molto di più: un poliglotta e un grande filologo.
Fu italiano e croato con la stessa fede, amò l’Italia e la Croazia con uguale passione: un Raguseo emblematico. Nella città di San Biagio, dove nacque nel 1835, terminò il Ginnasio, studiando poi a Vienna medicina e giurisprudenza. Ma non fu né un medico né un avvocato. Da studente universitario pubblicò in italiano una “Grammatica della lingua serbo-croata”, poi – per diversi anni, dopo Vienna – visse a Castel Ferretti presso Ancona dove la sia famiglia aveva un podere, prendendo parte al movimento risorgimentale per l’unità d’Italia e per la sua liberazione dallo straniero. Di quegli ideali si fece interprete presso i giovani ragusei allorquando, negli anni fra il 1868 e il 1882, insegnò nel Ginnasio della città natale. Nel 1883 raggiunse Zagabria dove per ventiquattro anni diresse il “Riječnik” (Dizionario) dell’Accademia jugoslava delle arti e scienze. Nel 1907 tornò in Italia a Castel Ferretti e vi visse fino al 1913 anno in cui tornò a Ragusa. Ma già l’anno successivo, gravemente ammalato e amareggiato per le persecuzioni che subiva dalla polizia austriaca (lo consideravano un pericoloso sovversivo), Pero Budmani fuggì dalla città natale, raggiunse Ancona e vi si spense il 27 dicembre 1914.

Il turco… italiano

Ma torniamo ai cenacoli ragusei. Nella città di San Biagio l’amore per la musica era sempre stato coltivato. Nelle case migliori i concerti non mancavano mai, e ad animarli furono soprattutto i fratelli Bersa con il loro genitore. Uno di essi, Vladimiro, diverrà un fecondo compositore.
Tra le case che ospitavano serate musicali c’era quella del console di Turchia Danish-efendia che possedeva una splendida villa a Gravosa. Oltre a quella delle danze e dei concerti, aveva la passione della cucina (preparava un ottimo risotto alla milanese) e quella di acquistare gli antichi mobili che abbondavano nei palazzi dei patrizi decaduti, sicché questi li vendevano al “turco” per pochi soldi. Il “turco”, invece, li spediva in Italia, dove li rivendeva a caro prezzo. Secondo la descrizione del Bersa, Danish-efendia era grassoccio, e gli si leggevano in faccia “tutti i tratti caratteristici di un Turco”; invece quel tale… “era un italiano purosangue, nativo di Firenze”. Anche la sua consorte, dotata di un seno strepitoso, era “Turca” originaria dei dintorni di Napoli!
L’arrivo di tempi nuovi, nella seconda metà dell’Ottocento, fece sì che le case e ville patrizie non fossero più gli unici luoghi in cui si riunivano gli esponenti dell’alta società e della borghesia, i poeti, i filosofi, i letterari in genere, gli artisti. Luoghi di incontro divennero anche i caffè, i saloni da barba, le farmacie. Ma qui non c’era posto per le donne.

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