«Monsignor Antonio Santin meriterebbe altro. Trieste meriterebbe altro». Quell’«altro», nella testa di Roberto Cosolini, va oltre la punta del Molo IV, la location destinata dal bando dell’Icmp, l’Istituto di cultura marittimo-portuale, alla futura statua da sette metri dedicata alla memoria del vescovo istriano a capo della Diocesi dal 1938 al ’75, dalle leggi razziali a Osimo.
Ci si aspetterebbe che il sindaco affondasse un coltellaccio nel burro, davanti alla storia spiattellata ieri sul Piccolo dallo scultore bisiaco Giovanni Pacor, che ha riferito come si fosse chiamato fuori dopo che in una riunione in Curia l’Icmp gli aveva comunicato l’intenzione di spostare la statua dalle Rive (il luogo pensato in origine da Roberto Dipiazza) al Porto vecchio, quindi dal cuore della città a una zona della città che città oggi non è. Una storia in cui – stando ai racconti dell’artista di Staranzano – s’intrecciano i ruoli “attivi” di Giulio Camber, totem del centrodestra triestino e «amico della signora Monassi», e di don Ettore Malnati, vicario del vescovo in carica, Giampaolo Crepaldi.
E invece Cosolini – questa è l’impressione – pare quasi spiazzato. «Oggi (ieri, ndr) presentando l’opera di Kounellis al Salone degli incanti – così il primo cittadino – ho detto di come lo stesso artista mi abbia confidato di essersi emozionato a Trieste e di come questa città, quando sarà consapevole di essere in grado d’emozionare, farà cose grandissime. Leggere di questo mercatino, costruito attorno a quello che dovrebbe essere un gesto alto artistico e storico, mi fa sperare che la città riprenda a emozionare e emozionarsi in fretta. E mi fa dire “povero monsignor Santin”».
Colpa di una collocazione impropria? «È tutto improprio in questa storia – la prende più alla larga Cosolini – e piano piano sta emergendo anche il perché: esponenti politici, il mio predecessore compreso, che negoziano il prezzo di un’opera e dissertano sul come farla come fossero veri critici d’arte. Mi pare tutto molto vecchio…». Più di Porto Vecchio.
Ok, soluzioni? «Non ho da dare soluzioni – ribatte il sindaco – e non mi va di prestare il fianco a polemiche di sorta. In fondo la procedura è avviata. La Regione, la passata legislatura, ha dato un contributo all’Istituto di cultura marittimo-portuale (110mila euro, ndr) che io ho già avuto modo di dire che è anomalo, visto che la città di fatto non è stata coinvolta attraverso le sue istituzioni». Benché qui venga comunque bollato da Cosolini, fosse stato “solo” per Dipiazza, visto che si discerne di fatti risalenti alla metà del suo secondo mandato, l’opzione Molo IV non si sarebbe probabilmente materializzata. «La mia intenzione era di riservare alla grande figura di Santin un punto della città importante, e l’avevo individuato a inizio Ponterosso, sulla destra, sorta di ideale ingresso verso il centro. All’epoca chiamai sia Giulio Camber che don Malnati, ma pure Bruno Marini, ad esempio, cioè quelle persone che avevano conosciuto di persona il vescovo Santin. Volevo sapere se Pacor, nel suo bozzetto, aveva colto il senso della sua figura».
Ma che idea ha l’ex sindaco del trasloco in Molo IV? Dipiazza, qui, sembra non voler soffiare troppo sulla brace: «Mi sto interessando di altre cose, non ho seguito direttamente». Però… «Credo che il posto che avevo trovato io era un omaggio importante». Punto.
«Dipiazza mi chiamò quella volta chiedendomi di dare una valutazione al bozzetto di Pacor, lo fece perché io avevo vissuto una parte dell’epoca di Santin e voleva sapere se l’artista ne aveva colto la personalità, eccome se l’aveva colta, l’opera mi piaceva e anzi sarebbe bello se ci fossero ancora i margini per un accordo perché, da quello che so da indiscrezioni, il problema era che l’artista non ci stava dentro con i soldi», conferma così in parte, don Malnati, la versione del predecessore di Cosolini mentre Giulio Camber preferisce non rilasciare dichiarazioni.
Su una cosa, però, il vicario di Crepaldi non concorda con Dipiazza: «Il porto non è fuori posto per la statua. Monsignor Santin si spese molto per la cantieristica triestina, anche se alla fine senza successo, e per i traffici dello scalo. Ricordo peraltro come sostenesse quanto Trieste si fosse sacrificata per l’Italia: da porto di un Impero era diventata uno dei porti di un Paese. Senza dimenticare che fu lui a trattare con il Cln la resa dei tedeschi a San Giusto, che avevano minato proprio il porto».
Piero Rauber
www.ilpiccolo.it 30 agosto 2013