di Franco Juri
A dieci anni dalla scomparsa di Fulvio Tomizza continuiamo ad incontrarci in occasione del forum che si fregia meritevolmente del suo nome. Ogni anno siamo un po' più… ricchi di esperienze. Per fortuna. Oltrepassiamo i confini come se non ci fossero, con passo lieve, parlando lingue e dialetti diversi e ispirati da un ottimismo di ferro. Per noi, in effetti, le frontiere non esistono anche se c'è sempre qualcuno o qualcosa che ci vuole convincere del contrario. Ci sono modi e modi di attraversare un confine. Lo si fa per avvicinarsi a chi sta dall'"altra parte", ma lo si fa anche nel tentativo di affermare una propria presunta superiorità o persino di umiliare chi sta di là.
Sabato scorso una trentina di persone – ma chi li guidava ha detto "potevamo essere in 300!". Sì, come alle Termopili – con in mano qualche croce e dei fiori rossi, ha attraversato il confine italo-sloveno sul Carso (un confine che fisicamente non c'è più, ma che l'imminente G-20 di Trieste potrebbe per qualche giorno ripristinare, ricordandoci un po' i tempi della "cortina") – per commemorare una foiba, una presunta fossa comune. Una delle tante disseminate sul carso, vuote o piene di tregedie. Chi guidava il piccolo corteo afferma che in quella foiba ci sarebbero i poveri resti di italiani e altre persone giustiziate sommariamente nel dopoguerra. Né la popolazione locale, né altri sanguigni militanti antifascisti questa volta hanno tentato di impedire la commemorazione. Giusto. Le autorità slovene l'hanno permessa, d'altronde non c'era alcun valido motivo per impedirla. Tutto a posto, niente incidenti. Nessun setto nasale rotto. Pur nel segno di un'insanabile polemica le battute tra il gruppo di esuli e chi li contesta – tra questi gli attivisti triestini del gruppo Promemoria – sono in fondo un esercizio di dialettica.
Eppure ad ogni celebrazione, spiegata con la pietas per i morti, rimane in bocca un retrogusto amaro. A sessantaquattro anni dalla fine della seconda guerra mondiale i sentimenti, politici o nazionali, bollono ancora. O meglio, qualcuno riesce magistralmente a farli bollire, come se tutti i partecipanti a queste kermesse fossero usciti per miracolo da un foiba ieri e gli altri li avessero buttati lì dentro l'altro ieri. Risulta difficile seguire le logiche di chi vive e afferma la propria identità su questo tipo di memoria. È stata, questa, la terza marcia commemorativa sul Carso sloveno organizzata dal leader dell'Unione degli Istriani. Ma questa volta l'evento ha avuto un connotato di ufficialità in più, una sorta di "valore aggiunto". Tra i partecipanti c'erano pure un sottosegretario all'Ambiente in camicia o maglietta nera e il console generale d'Italia a Capodistria. Quale messaggio si è voluto trasmettere?
Probabilmente che siamo in Europa, e che nessuno può impedire una manifestazione pacifica fatta di croci e fiori. Giusto. Legittimo. Ma chiunque non sia ingenuo e sprovveduto sa che la sostanza della commemorazione era un po' particolare, che aveva una marcata valenza politica, ideologica e nazionale, come la via triestina intitolata al noto giornalista fascista Mario Grambassi. Buona fede? Pietas? Non ci credo, comunque non ho elementi per contrastare l'intenzione dichiaratamente commemorativa.
Ho quindi lanciato una proposta; se siamo tutti in buona fede, non dovremmo temere la verità. Abbiamo un bel precedente; la commissione mista storico-culturale e la sua relazione. Perché non continuare su quel percorso anche con le foibe incriminate? Perché non aprirle – da Basovizza a Golobivnica – e permettere che speleologi, esperti forensi e storici sloveni e italiani appurino la verità di quelle viscere carsiche? Fa paura? Giusto, ma bisognerebbe avere il coraggio di farlo, e poi -appurato quanto può essere appurato – avere il coraggio di ammettere quanto va ammesso. E di deporre un mazzo di fiore, insieme, dove è giusto deporlo.