Pochi sanno che il nome completo dell’ex conduttore televisivo Predolin (oggi proprietario di un ristorante in Sardegna) è Marco Maria Dalmazio: egli è, infatti, nato a Borgo Val di Taro (PR) nel 1951 in una famiglia di esuli dalla Dalmazia. Tale aspetto della sua biografia emerge in un’intervista recentemente rilasciata al quotidiano romano “Il Tempo”, di cui pubblichiamo uno stralcio.
Non tornerei mai in tv, la seconda vita di Marco Predolin
«Tu sei slavo» gridavano con un po’ di disprezzo i compagni di scuola al piccolo Marco. Essere chiamati «slavi» non era una gran bella cosa negli anni sessanta provenendo da un territorio, quello della Venezia Giulia, che è stato per anni oggetto di battaglie di appartenenza. La storia dell’Istria e della Dalmazia è una storia che parla di Roma e di Venezia. Fu Giulio Cesare a fondare, dopo Trieste (Tergeste), le colonie di Pola (Pietas Julia) e Parenzo (Julia Parentium); fu Augusto a portare i confini dell’Istria fino al Quarnaro e a creare le Decima Regio Venetia et Histria, che si espandevano dall’Oglio all’Arsa e dalle Alpi al Po. Trieste fu collegata a Pola attraverso la via Flavia che raggiungeva poi Fiume (Tarsatica). Un’iscrizione d’epoca augustea reperita nei pressi di Fiume dice «Haec est Italia Diis sacra». Roma lasciò splendide testimonianze nel colle Capitolino e nel teatro di Trieste, nell’Arena di Pola, nell’arco di Fiume, nel Foro di Zara e nel palazzo di Diocleziano di Spalato. Ma quel sogno iniziale di avere Istria e Dalmazia appartenenti all’Italia e alla Venezia Giulia durò finché il diktat di pace del 10 febbraio 1947, imposto al termine della seconda guerra mondiale, dalle potenze vincitrici, strappò l’Istria, Fiume e Zara e le isole all’Italia, consegnandole alla Jugoslavia di Tito. Marco Predolin è stato uno dei personaggi televisivi più celebri e amati negli anni ottanta e novanta ma la sua storia familiare parte da quella terra che fu oggetto di sanguinose battaglie e, soprattutto, fu teatro di uno dei crimini più violenti della storia dell’umanità: le foibe. Soltanto nel nuovo secolo e con la legge del 30 marzo 2004 numero 92, venne istituito il 10 febbraio «il Giorno del Ricordo». L’istituzione della giornate delle vittime delle foibe, fino a quel momento volutamente dimenticato, vuole rinnovare la memoria «della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». O come ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella «per troppo tempo le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia». In questo clima e con questa tragedia sulla pelle Marco Predolin è cresciuto e quel «tu sei slavo era proprio rivolto a lui». «La cultura, vista da sinistra» racconta Marco «è un crogiolo di divieti e tabù. Ci sono storie e storie. Quelle che piacciono all’intellighenzia e quelle che, invece, mandano in frantumi i suoi totem. Ecco, queste ultime, a differenza delle prime, non sono bene accette nei consessi progressisti e c’è persino chi vorrebbe proibirne la divulgazione».
È questa la sua sensibilità rispetto alla questione «Giuliana-dalmata»?
«Mio padre era un ufficiale della Repubblica Sociale e mia mamma una insegnante.
Eravamo una famiglia borghese che stava economicamente bene ed aveva tutto.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale siamo stati epurati ed abbiamo, invece, perso tutto.
La sinistra non ama parlare dei suoi errori; la vicenda delle foibe ha messo più di vent’anni a venire fuori così come un’altra triste vicenda…»
Quale?
«Quella dell’uccisione di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci che vennero freddati entrambi, all’interno della sezione del Msi di Padova, una mattina di giugno del 1974, da un commando di brigatisti rossi. Devo anche dirti, ad onor del vero, che per me il 25 aprile non riesco a viverlo come una festa nazionale».
Perché?
«Quel giorno i miei genitori vennero sbattuti in una fossa comune perché dovevano essere fucilati ma si salvarono». […]
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