II grande pubblico ha conosciuto Biljana Sbrljanovic durante la guerra del Kosovo, quando Repubblica ospitava il suo Diario da Belgrado. Non era che una parte del suo febbrile attivismo di quegli anni. E non è che una parte della sua vocazione di scrittrice: nessuno ha raccontato la crisi della ex-Jugoslavia come la giovane drammaturga serba, una crisi che è prima di tutto di valori e d'identità. E nessun altro ha mostrato in modo altrettanto diretto ed efficace il legame tra la crisi dei Balcani e la più generale crisi dell'Europa e dell'Occidente, che la guerra ha messo a nudo. La 36enne autrice serba rappresenta una nuova generazione di intellettuali europei, non compromessi con le ideologie del passato e portatori di un combattivo pensiero civile, critico e democratico. Per questo l'abbiamo intervistata, nel giorno in cui riceveva a Salonicco il Premio Europa per il teatro, una sorta di Nobel dell'Unione Europea, nella sezione Nuove realtà teatrali. Il suo teatro rappresenta in modo impietoso lo sfascio politico e morale della ex-Jugoslavia. Ora che la situazione va normalizzandosi, la sua ispirazione cambierà? «Non posso dire ora che cosa scriverò in futuro, ma non cambierò i miei interessi: i problemi della gente, e una crisi d'identità che, peraltro, non riguarda la sola Serbia. Sono questioni che vanno ben al di là della guerra. Questo per quanto riguarda me. Ma la sua domanda ha un presupposto da cui devo dissentire: chi ha detto che la situazione in Serbia stia normalizzandosi?». Non trova che, pur con molte contraddizioni, si sia avviato un processo democratico? «Per ora io vedo solo le contraddizioni. Quanto al processo, se c'è è fermo, impantanato come le Nazioni Unite in Kosovo. La verità è che, a quasi dieci anni dalla guerra, qui tutto è bloccato. A cominciare dalla democrazia: ci sono giornalisti che sono stati perseguitati solo per aver scritto ciò che a tutti pare ovvio, e cioè che molti criminali di guerra si nascondono in Serbia e sono protetti dalle autorità che li dovrebbero perseguire. Nulla qui è normale, salvo il silenzio dei media occidentali». Da qualche tempo lei vive a Parigi. Non teme che la sua voce giunga in Serbia smorzata? «Francamente no. Viaggio molto, e mantengo con il mio Paese dei forti legami professionali e personali. Insegno, scrivo, partecipo a blog e forum di discussione, mi confronto con persone di ogni tipo. E poi non mi sento più serba che europea. La mia esperienza e la mia nazione sono importanti, le sorti della Serbia mi stanno logicamente a cuore. Ma sono una cittadina europea. E i problemi di cui tratto non sono affatto esclusivi della Serbia». Che cosa significa essere cittadini europei, in concreto? «Su un piano personale, mi sento a casa mia a Belgrado come a Parigi, a Vienna come a Milano. Voglio dire che in ogni angolo d'Europa riconosco una matrice comune, a cui sento di appartenere. Valga per me lo stesso che per milioni di persone: la mia identità non si è formata solo sulla base delle tradizioni del mio Paese di nascita, ma anche sulla base della letteratura austriaca, del teatro tedesco, del modello politico-sociale svedese, del cinema francese o italiano. Sono tutti elementi di un'identità comune, benché esistano forti differenze regionali, che sono la grande ricchezza dell'Europa». Il suo approccio è cosmopolita, la formazione della sua generazione è internazionale, la sua visione è europeista. Al tempo stesso, lei critica severamente la globalizzazione: non c'è contraddizione? «No, perché sono questioni diverse. L'Europa ha un'identità plurale, al cui interno ciascuno ha modo di esprimere le proprie differenze. La globalizzazione ha il volto aggressivo della politica americana degli ultimi anni: tende ad omologare, a imporre un modello unico e dominante con un'idea di democrazia solo formale, che prescinde da una garanzia effettiva dei diritti delle persone e delle comunità. Con tutto questo, va fatta una precisazione: quando parlo di Europa non mi riferisco all'Unione Europea, cioè al processo d'integrazione politica ed economica. Da questo punto di vista, c'è moltissimo da fare e temo che si sia alla vigilia di una crisi». Che cosa intende dire? «Che la costruzione dell'Europa non può ridursi solo al mercato, alle minuziose regole della burocrazia di Bruxelles, ai giochi della finanza. Servono un forte appello ai valori fondanti della cultura europea, il riconoscimento di una civiltà comune, il coinvolgimento di un'opinione pubblica democratica e attenta. Altrimenti l'Unione rimane qualcosa di astratto, che pretende di omologare al ribasso le differenze. Il problema si pone in modo acuto adesso che l'Unione si è allargata ai Paesi dell'Est. Senza un forte rilancio politico-culturale, si aprirà un solco fra i nuovi Paesi e i Paesi fondatori: l'Unione rischia o la disgregazione o l'impotenza». In «Supermarket» lei rappresenta l'Occidente come un mondo vuoto, che surroga con i soldi la perdita d'identità e di valori. La sua percezione dell'Europa è speculare alla sua percezione della questione serba? «La Serbia è l'espressione particolare di problemi che sono generali. La democrazia è in affanno in tutta Europa: io noto un crescente distacco tra cittadini e istituzioni, vedo i media subire il pesante condizionamento del potere, osservo la commistione tra politica e finanza, l'affievolirsi del confronto pubblico, l'inadeguatezza della classe dirigente. Al tempo stesso, esiste una crescente presa di coscienza di questi problemi, e la gente ha nuovi strumenti di dibattito: penso ad esempio ai blog, che sono una nuova forma di incontro, informazione e discussione, che sorge dal basso, è indipendente e sovranazionale. Insomma, la partita è ancora tutta da giocare».
Pier Giorgio Nosari