È un fatto poco noto. Dopo la seconda guerra mondiale i titini jugoslavi eliminarono con la violenza i componenti della minoranza tedesca della Craina (croato: Krajina). “Si sta parlando di 180-200 mila persone abitanti nella Craina, me l’hanno detto certi studiosi di Zagabria – ha riferito una fonte orale – furono uccisi tutti: anziani, donne e bambini” (Zuballi U 2024). Pur essendo cittadini jugoslavi, la loro colpa era di essere di ascendenza germanica, o austriaca e di aver fraternizzato con le truppe di Hitler nel 1941, quando ci fu l’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse. Nella terminologia nazista i Volksdeutschen (tedeschi etnici) erano persone di antica lingua e cultura tedesca, privi di cittadinanza germanica, perciò da assimilare. Oltre a eliminare 180-200 mila individui, i titini si adoperarono per danneggiare, radendo al suolo perfino i loro cimiteri nei vari villaggi, per non lasciare traccia di quella rilevante presenza.
A fine conflitto fu l’OZNA, il servizio segreto di Tito, a ordinare l’uccisione di tutta quella gente. La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (OZNA) significa: “Dipartimento per la Sicurezza del Popolo”. Le singole uccisioni avvenivano all’arma bianca. Il pugnale non fa rumore. Per decine o centinaia di persone furono usate invece le fucilazioni nelle caverne, l’esplosivo, o presso le fosse comuni, o le deportazioni nei gulag titini, come Josipovac, Krndija, Sterntal e Valpovo, tra i tanti. Fu pulizia etnica?
In Craina e in Slavonia (croato: Slavonija) i Volksdeutschen erano discendenti di quei contadini e allevatori tedeschi che, a metà del Settecento, furono trasferiti a Osijek e nel suo fertile circondario dalla imperatrice Maria Teresa d’Austria con lo scopo di preservarli dalle carestie, dalla fame e che colà bene si accasarono.
È stata Ivana Šojat, nel 2009, a pubblicare in croato un romanzo che evoca quei tragici fatti. I partigiani comunisti di Tito non lasciarono perdere a fine guerra e si scagliarono contro quella minoranza tedesca, accomunandola al nazismo. Uccisero e deportarono vecchi, donne e bambini nel campo di concentramento di Valpovo, in Croazia, al confine con la Serbia. Ha raccontato Ivana Šojat che: “Albeggiava quando giunsero a Valpovo, nel campo di concentramento strapieno di bambini coperti di pidocchi, di gente senza più dignità. Seguirono mesi di fame, sporcizia, dissenteria. Come un incubo da cui non ci si riesce a svegliare” (Zandel D 2022). È stato inaugurato nel 2003 un monumento nel cimitero di Valpovo come memoriale per le numerose vittime di quel gulag titino, alla presenza di pochi sopravvissuti e di ufficiali croati e tedeschi, segnando un momento di riflessione e di ricordo comune nel segno della pace.
Si ricorda che dopo il 6 aprile 1941, data dell’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, la Slovenia del Nord, con Maribor (tedesco: Marburg an der Drau), venne annessa al Terzo Reich come Bassa Stiria, mentre l’altra metà della Slovenia, con Lubiana e Novo Mesto, fu annessa al Regno d’Italia. Una parte slovena vicina al confine magiaro (Prekmurje) invece fu annessa dall’Ungheria nazi-fascista.
Dopo l’8 settembre 1943 le provincie di Fiume, Pola, Gorizia, Trieste, Udine fecero parte della Zona d’operazioni del Litorale adriatico (Adriatische Kustenland) del Terzo Reich. Oltre agli angloamericani, dal mese di maggio 1945 i partigiani titini dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia invasero una parte dell’Austria, con Klagenfurt, rivendicando la sovranità sulla parte meridionale della Carinzia, ma un referendum definì la scelta austriaca.
Il gulag titino di Sterntal, 1945
Utilizzato dopo la seconda guerra mondiale dai comunisti titini, il campo Sterntal (sloveno: Taborišče Šterntal, tedesco: Lager Sterntal) fu un campo di concentramento situato a Kidričevo, in Slovenia, come si legge in Wikipedia. In esso vennero radunati gli jugoslavi oriundi tedeschi, o austriaci, prelevati dai titini nella Bassa Stiria e dalla città di Gottschee (sloveno: Kočevje), nella Slovenia del Sud, ai confini con la Croazia, ove un’altra comunità tedesca si stanziò sin dal XIV secolo.
È dal mese di maggio del 1945 che con la direzione di Aleksandar Ranković, la polizia segreta jugoslava (OZNA), fu istituito tale campo di concentramento su un sito precedentemente usato nella Grande guerra con baracche. Il campo di Sterntal fu utilizzato per recludere pure certi jugoslavi della minoranza ungherese deportati dal Prekmurje sloveno (Oltremura).
L’eccessivo affollamento e l’igiene manchevole nelle misere baracche provocarono la morte di molti detenuti per infezioni intestinali, tifo ed altre malattie. I prigionieri vennero pure sottoposti a sadiche torture fisiche e mentali. Molti furono fucilati. Tra le sevizie più terribili c’era quella di obbligare i carcerati stesi a terra a lasciar passare le motociclette rombanti dei guardiani sui corpi inermi. Morirono molti anziani e bambini. Il campo, progettato per 2.000 posti, contenne tra gli 8.000 e i 12.000 individui. Vi morirono oltre 5.000 persone. Il gulag di Sterntal fu chiuso nel mese di ottobre del 1945 grazie all’impegno della Croce Rossa. La maggior parte dei sopravvissuti fu deportata in Austria.
Discendenti italiani espulsi dalla Slavonia nel 1956
Già diffusa nel 2018, ecco una storia di certe famiglie di origine veneta, frutto dell’emigrazione di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento (Varutti E 2018 : 35). Dalla zona di Romano d’Ezzelino, provincia di Vicenza, i loro avi emigrarono nell’Impero d’Austria Ungheria per lavorare nelle carbonaie della Slavonia, in Croazia, nei pressi di Osijek, presso il confine ungherese. Dopo il 1945 i giovani discendenti frequentavano le scuole jugoslave, parlavano croato e recavano persino nomi propri croati. Le famiglie erano integrate. Solo in casa c’era chi parlava l’antico dialetto veneto imparato dai nonni. Da questa interessante intervista si comprende come il sistema della pulizia etnica, ormai, imperversasse nella Jugoslavia del 1950-1960. Chi avesse avuto una parvenza di italiano doveva essere cacciato, o eliminato.
“Mia mamma era Maria Bosniak, oggi vivo in provincia di Varese – ha detto Slavica Delbianco – siamo dovuti venir via, dopo varie pressioni, nel 1956. Siamo arrivati al confine di Fernetti, vicino a Trieste, in treno e i soldati slavi ci dissero che i dinari jugoslavi era meglio cambiarli, però quando il treno è ripartito loro si sono tenuti tutti i nostri soldi. Prima della partenza le autorità jugoslave ci diedero una lista dei beni che potevamo portare in Italia, erano poche cose. Abbiamo dovuto vendere tanti beni. Siamo passati dal Campo profughi di Udine, poi ci hanno trasferiti a Gaeta, provincia di Latina, lì il Campo profughi era in una vecchia caserma rovinata. Poi siamo andati al Centro raccolta profughi di Aversa, provincia di Caserta, in certi prefabbricati; erano delle belle casette. Poi di nuovo al CRP di Gaeta, dove, nel 1959, mi è nata una sorellina. Mio nonno Delbianco faceva il carbonaio e proveniva dalla zona di Romano d’Ezzelino. Siamo usciti dal CRP nel 1961. I miei genitori hanno dovuto aspettare tre anni per avere i documenti per espatriare. Prima di partire abbiamo dovuto vendere un pezzo di terra e, persino, il corredo con merletti. Al confine italiano mio fratello Ivan è stato italianizzato in Giovanni e così via…”.
L’OZNA ammazzò anche in Istria
È una scena sconvolgente quella cui dovette assistere Antonio Zappador a Verteneglio, in Istria nel dopoguerra. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’OZNA – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo, hanno squartato quell’uomo come con i maiali al macello”. Quel tremendo ricordo vissuto verso il 1950 è contenuto pure in un verso di una raccolta poetica del testimone: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador A 2019 : 83).
Ecco un’altra fonte: “Forse ero troppo piccolo e ne sono venuto a conoscenza più tardi – ha detto Riccardo Simoni – mio fratello, nato nel 1937, mi disse che lui ne aveva sentito parlare. A Rovigno ci furono due periodi di infoibamenti, nell’autunno 1943 e dopo il maggio 1945. In entrambi i casi è ora documentato che le esecuzioni avvenivano solo per espliciti ordini della polizia segreta, l’OZNA. Nel 1943 oltre trenta rovignesi vennero consegnati al Tribunale Popolare di Pisino e poi infoibati. Il tutto avvenne sotto il comando di Ivan Motika ‘Franic’, responsabile per l’Istria dell’OZNA da una lista di nomi fatta da un gruppo di giovani esaltati di Rovigno. Erano detti ‘quelli della Ceka’ [la Ceka era il servizio segreto dell’Urss dal 1917 al 1922, NdR]. Essi emarginarono da ogni decisione i dirigenti comunisti ‘storici’. Ormai i loro nomi sono quasi tutti conosciuti e sono ora tutti deceduti con i loro segreti. Uno di loro era Paolo Poduie, divenuto dopo l’ottobre 1943 partigiano nel Veneto e poi Capitano del SOE, futura Intelligence Service inglese. Si possono trovare notizie esaurienti in Internet. Poduie è morto tanti anni dopo, in silenzio, a Milano. Tutti, anche i bambini, sapevano che l’OZNA controllava tutto. Dal maggio 1945 avvenne a Rovigno un’altra serie di infoibamenti con il carattere peculiare che i cadaveri degli uccisi nella grande maggioranza non vennero mai più trovati e questo atroce segreto permane. Nel 1943 venne infoibato il padre del mio caro amico, recentemente deceduto, Nino Maressi, che ben sapeva il nome di chi l’aveva fatto arrestare, rivisto poi profugo a Monfalcone (GO). Nel 1945 scomparvero il padre e il giovane fratello della mia cara amica Bianca Benussi. Lei ricordò ancora con strazio quella tragica vicenda” (Simoni R 2020).
Col pallino della pulizia etnica
La pulizia etnica in Craina e in Slavonia si verificò già nei primi anni della seconda guerra mondiale. Nei riguardi dei cittadini serbi, presenti da tempo in maggioranza nella Craina, il governo di Ante Pavelić (1941-1945) sostenne le violenze fisiche dei sedicenti “ustascia selvaggi” (divlje ustaša), miliziani esaltati filo-nazisti. L’autorità croata nei primi anni quaranta emanò norme discriminatorie contro serbi, ebrei e i rom. Mandò nelle provincie propri dirigenti per attuare le deportazioni e le esecuzioni di massa nei campi di concentramento, come in quello di Jasenovac.
Dopo le dichiarazioni d’indipendenza di Slovenia e di Croazia, nel 1991, la Jugoslavia si dissolse, ma iniziarono alcune sanguinose guerre civili secessioniste per un decennio. Nel dicembre 1991 ci fu la secessione dei serbi della Craina (attorno a Tenin), cui si aggiunsero quelli della Slavonia (presso Osijek e Vukovar) vicino al confine serbo. L’esercito croato rioccupò quelle zone con l’Operazione Tempesta nel mese di agosto 1995. Anche in Bosnia Erzegovina le milizie di etnia serba aprirono il fuoco contro gli altri: croati e musulmani della regione. Nel 1999 ci fu la guerra nel Kosovo tra serbi e la minoranza albanese. Solo nei primi anni del 2000 la situazione con l’intervento della NATO si normalizzò tendenzialmente (Battistini F, Mian M G 2022 : 15, 206).
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Fonti orali – Le interviste (int.) sono state condotte a Udine con taccuino, penna e macchina fotografica da Elio Varutti, se non altrimenti indicato. – Slavica Delbianco, Zielona Gòra (Jugoslavia) 1948, esule in provincia di Varese, int. telefonica del 30 ottobre 2013. – Riccardo Simoni, Rovigno 1940, trapiantato a San Casciano Val di Pesa (FI), int. telefonica del 23-25 febbraio 2020. – Zappador Antonio, Verteneglio 1939, int. del 23 febbraio 2020, a Fossoli di Carpi (MO). – Zuballi Umberto, Varese 1947, oriundo di Capodistria, int. del 10 giugno 2024 e messaggio e-mail del 21 giugno 2024.
Cenni bibliografici e sitologici (visualizzazioni del 22.06.2024)
– Francesco Battistini, Marzio G. Mian, Maledetta Sarajevo. Viaggio nella guerra dei trent’anni. Il Vietnam d’Europa, Vicenza, Neri Pozza, 2022.
– Ivana Šojat, Segreti di famiglia, (edizione croata: Zagabria, 2009), Roma, Voland, 2021.
– Sterntal camp, in Wikipedia.
– Elio Varutti, Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia esuli in Friuli 1943-1960. Testimonianze di profughi giuliano dalmati a Udine e dintorni, Udine, Provincia di Udine / Provincie di Udin, 2017. Anche nel web dal 2018.
– Diego Zandel, La minoranza tedesca in Slavonia: segreti di famiglia, on line dal 19 agosto 2022 su balcanicaucaso.org
– Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.
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Testo di Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Sergio Satti, Mauro Tonino, Bruno Bonetti (ANVGD di Udine) e i professori Elisabetta Marioni, Annalisa Vucusa, Ezio Cragnolini e Enrico Modotti. Copertina: Maria Iole Furlan, Il gulag titino di Valpovo, tecnica mista al computer e su carta, cm 20,5×29, 2024, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Grazie a Alessandra Casgnola, Web designer e componente del Consiglio Esecutivo dell’ANVGD di Udine. Sito web: https://anvgdud.it/
Fonte: ANVGD Udine – 27/06/2024