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Leo Valiani, un partigiano fuori dal coro (Repubblica 02 mar)

di NELLO AJELLO

«Da storico scrivo solo su ciò che ritengo di conoscere bene e che vivo come problema nel mio animo». Sono parole di Leo Valiani, che David Bidussa ricorda nella sua prefazione al volume Tra politica e storia dello stesso Valiani, appena apparso a sua cura negli Annali della Fondazione Feltrinelli (pagg. 598, euro 70).

Densa di richiami autobiografici come quella dichiarazione prometteva, quest´opera antologica esce nel centenario della nascita dello storico e uomo politico fiumano.

Sono trentuno scritti di diversa ampiezza, apparsi in varie riviste dal 1939 al 1956, che offrono un´impressione assai viva delle passioni dell´autore nella sua doppia qualità di testimone e di studioso. Vi affiora, soprattutto, il Valiani della gioventù e della prima maturità. Vi si leggono agili scritti biografici dedicati a un Lafayette, a un Marat, al rivoluzionario Filippo Buonarroti. Spicca un ricordo di Piero Gobetti, di cui si ricorda quel consenso tributato al Gramsci dei Consigli operai che, proprio perché contraddittorio rispetto al suo liberalismo, gioverà al mito del giovane martire piemontese presso i «discepoli postumi» che egli «acquisterà durante la lunga cospirazione antifascista». C´è Benedetto Croce, maestro riconosciuto d´una generazione, malgrado il distacco che avvertiranno nei suoi riguardi gli uomini della Resistenza armata. Ci sono gli studi di Valiani sugli anarchici e la loro dottrina. Domina la riflessione sulla guerra di Spagna, che nella mente dell´autore suona come il preludio della sua abiura del comunismo.

Preciso nei ricordi,

Valiani era secco nelle prese di posizioni, drastico nei giudizi.

Scriveva rapido e netto. La semplicità era la sua cifra stilistica: e ciò sia nei momenti in cui l´esercizio del commentare era un intermezzo nell´azione politica, sia quando c´era spazio e tempo per una riflessione meno impetuosa. In questa sua seconda funzione, eminentemente critica, che svolse per molti anni nelle pagine dell´Espresso e del Mondo e poi – fin quasi alla morte – in quelle del Corriere della sera, Valiani continuava a mostrare la sua anima di «cronista di storia». Egli sopportava la propria leggenda con una noncuranza persino brusca. A parlargli, non era possibile scorgere in lui alcuna indulgenza nei riguardi della propria parte politica: si trattasse di Giustizia e Libertà (o del partito d´Azione) cui approdò dopo la giovanile apostasia dal Pci, o del Partito Repubblicano, al quale più tardi si accostò senza in nulla attenuare le proprie pulsioni di indipendenza.

Non a caso nella lettera, finora inedita, che gli inviò Giorgio Amendola nel maggio 1975 – ne pubblichiamo qui vari stralci per cortese concessione dell´archivio Valiani – gli si riconoscono le qualità necessarie per far «comprendere le ragioni storiche e politiche dei limiti che ebbe la Resistenza». In particolare, l´illustre mittente considera Valiani l´unico studioso in grado di tracciare «la storia della vita (gloriosa) e della morte

(dolorosa) del Partito d´Azione», senza tacere gli errori di quei «democratici», da La Malfa a Parri, che non seppero raccogliere l´eredità di Amendola padre. Un altro argomento della lettera riguarda il perché gli azionisti non raccolsero in «un partito laico moderno» quegli intellettuali di formazione liberale – e qui Giorgio Amendola cita ad esempio il letterato Franco Antonicelli e lo storico Gabriele Pepe – rimasti senza altra destinazione politica che non fosse il confondersi con «i sopravvissuti della vecchia democrazia prefascista».

E´ il caso di segnalare, infine, la spregiudicatezza di Amendola nel denunziare il fatto che gli oppositori del regime littorio, comunisti compresi, non diedero il giusto peso all´eredità che lasciava l´esperienza fascista nella cultura e nel costume nazionali. Va ricordata in proposito l´accoglienza positiva che Amendola aveva riservato alla biografia mussolinana di Renzo De Felice, pubblicata da Einaudi dal 1965. Ciò che colpisce, in questa lettera, è – ripeto – la fiducia che l´esponente nel Pci ripone nel suo quasi coetaneo ex azionista nel valutare questo ed altri aspetti della vicenda italiana.

«Farsi storico dopo essere stato militante»: fu questo – secondo Giovanni De Luna, che presenta il volume edito dalla Feltrinelli – il percorso di Leo Valiani, la specialità del suo destino intellettuale e umano. Ecco un´epigrafe che riassume il senso di una vita.
 

Da combattente a testimone

Leo Valiani nasce nel febbraio 1909 a Fiume. A undici anni è già socialista. A diciannove, da antifascista, subisce la prima condanna al confino. Dal ´31 al ´36 è di nuovo in carcere. Quando esce, combatte in Spagna. Nel ´39, è internato in Francia. Dopo la rottura con i comunisti, diventa leader del Partito d´Azione. Dopo la Costituente e dopo la fine del Pda, si dedica all´attività di storico.

Aderisce, dal ´56 al ´62 al Partito radicale e, negli anni Ottanta, ai repubblicani. Come giornalista, collabora con Il Mondo, L´espresso e Il Corriere della sera. Muore nel 1999. 

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