Il dramma dell’esodo degli italiani dall’Istria narrato attraverso la storia del rapporto tra padre e figlio, dal momento del loro ritorno a casa, a Pola, nel 1943, quando il piccolo Sergio vede per la prima volta Flavio. “Mi trovai di fronte un uomo così sporco e miserabile da farmi paura. Aveva il cappotto stracciato sulla manica e coperto di fango, le scarpe erano rotte…”. Si presenta così il libro di Stefano Zecchi, “Quando ci batteva forte il cuore” (Mondadori, 2010), che presto diventerà un film per la regia del milanese Luca Lucini, reduce dal successo di pellicole come “Tre metri sopra il cielo” e “Amore bugie e calcetto”.
Zecchi noto scrittore, giornalista e filosofo, è una figura celebre per la sua attività accademica, così come per le frequenti apparizioni televisive, che l’hanno reso conosciuto a un pubblico vastissimo, grazie soprattutto alla sua rara capacità di saper rendere accessibili ai più la materia filosofica e l’arte, senza scadere nella banalità. Nell’intervista che segue, preparata per la prossima trasposizione cinematografica del romanzo, lo scrittore e filosofo ha parlato di com’è nata l’opera, della ricerca effettuata per scriverla e anche del successo riscontrato.
Da dove l’interesse per questo soggetto?
“L’attenzione è dovuta a una serie di circostanze non legate esclusivamente alla mia città natia, Venezia. Ma come veneziano, e avendo una madre triestina, ho iniziato a conoscere la storia dei confini italiani orientali fin da piccolo. E ciò attraverso le esperienze recepite durante gli anni ’50 con l’arrivo dei profughi giuliano-dalmati sulla riva degli Schiavoni. Con mio padre passeggiavo e vedevamo queste povere persone che scendevano dalle barche in fuga dalle coste istriane, quarnerine e dalmate. Ricordo i bambini, miei coetanei, con il cartello di profugo al collo. I miei avevano ospitato una famiglia di profughi. E rammento perfettamente quanti li accoglievano con sputi, fischi e inveivano contro di loro chiamandoli ‘fascisti’, ‘venduti’, come se fossero ladri. Ero colpito da quelle genti che avevano lasciato tutto pur di non rinunciare a essere italiani. Non facemmo più quel percorso, le scene erano troppo forti, troppo dolorose, ma l’immagine non l’ho più dimenticata.
“Poi c’è stato un periodo in cui io, come assessore alla cultura del Comune di Milano, avevo organizzato degli eventi per il Giorno del Ricordo, per cui dovevo per forza intraprendere dei contatti con questa realtà. E poi altre situazioni che mi hanno portato ad approfondire la storia per raccontare questa vicenda attraverso una famiglia, e in particolare attraverso gli occhi di un bambino che cerca di capire il dramma di quel momento”.
Com’è riuscito a dipingere in modo così vivido la tragedia degli esuli?
“Mi piace scrivere, e quando lo faccio, mi piace mettermi dentro le vicende che narro. Questo non è il mio primo romanzo. Essendo professore di Estetica, ho ben chiare le idee del processo letterario, cosa che cerco poi di trasferire sulle pagine. In altre parole mi concentro sui significati, cerco di cogliere le emozioni e di trasmettere le sensazioni”.
Quali documenti, fonti, materiale storico ha consultato per la stesura del romanzo?
“Tutto quello che avevo a disposizione. Oggidì, per fortuna, abbiamo testi di storia su queste vicende molto importanti, anche se pubblicati da piccoli editori. In realtà, questo è il segno che gli avvenimenti del confine orientale sono ancor troppo marginali all’interno della cultura italiana, europea e occidentale. Un’altra cosa che ho notato è che c’è una grandissima mole di studi storici, mentre è molto limitata la narrazione. Ciò è stato un ulteriore stimolo per scrivere il romanzo con una base storica autentica, da cui fuoriesce una serie di mitologie, simbologie e metafore. Tutte cose che possiedono un grande valore di comunicazione. In quest’ottica ho pensato che un romanzo potesse instradare l’attenzione su queste vicende. Inoltre, ho visitato più volte Pola, l’intera Istria e anche Fiume, con l’intento di perlustrarle per descrivere quanto più realisticamente le ambientazioni del romanzo”.
È rimasto sorpreso dal successo, tanto che ora è prossima la trasposizione cinematografica?
“Certamente, anche se la mia maggior apprensione rappresentava di come questo libro sarebbe stato accolto da chi ha vissuto realmente quelle vicende. Per me è stato quindi una grande soddisfazione vedere il successo. Il volume è arrivato a sette edizioni e ora anche a quella tascabile. Con la trasposizione filmica del libro, l’intera storia di questi confini orientali, assieme ai loro popoli, diventano occasione di diffusione della conoscenza di una grande storia umana, che deve essere divulgata”.
Il titolo “Quando ci batteva forte il cuore” sta a indicare?
“Un periodo quando il cuore batteva a causa delle incertezze per il destino delle terre lasciate e dei suoi abitanti. Allo stesso modo perché la trama racconta del rapporto tra padre e figlio. Un bambino che non conosce l’importanza della figura paterna, e il cuore gli batte quando capisce che questo padre è tutto per lui”.
In Italia, soprattutto in questi ultimi tempi, si parla tantissimo degli esuli e delle loro tragedie. Tuttavia, è poco nota la componente italiana che è rimasta in queste terre.
“È un altro capitolo assolutamente sconosciuto. Forse ancora più ignorato di quello legato all’esodo. In questa direzione c’è tanto da lavorare, perché è un altro aspetto della nostra storia moderna che andrebbe compreso e riesaminato”.
Gianfranco Miksa / “La Voce del Popolo” 16 novembre 2011