di Stenio Solinas nostro inviato a Trieste
Roberto Calasso non ha bisogno di consigli e le sue edizioni Adelphi non sbagliano un colpo, ma se fossi in lui una scommessa su Pier Antonio Quarantotti Gambini la farei. Rilancerebbe un nome troppo frettolosamente dimenticato e onorerebbe la memoria di Bobi Bazlen, che di Calasso fu amico e suggeritore e di Gambini amico ed estimatore. Me lo dico mentre mi aggiro nella sala Attilio Selva di palazzo Gopcevich, a Trieste, fra libri, foto, documenti e oggetti che rimandano alla vita e all’opera di questo scrittore istriano dal nome lungo ed elegante quanto il suo fisico, che cominciò a scrivere appena ventenne e morì nemmeno sessantenne. In fondo lo tradì il tempo, alla cui prospettiva aveva guardato in tutta la sua carriera di narratore non tentato né sedotto dall’attualità. E lo tradì la storia, tanto amata nel suo essere insieme racconto e memoria radicata, e poi tanto odiata allorché si ridusse a pura ideologia. Istriano, Quarantotti Gambini (1910-1965) si ritrovò esule dalla parte sbagliata, quella degli sconfitti; antifascista, si ritrovò epurato dagli iugoslavi come fascista, solo perché italiano…
Intitolata L’onda del narratore, curata da Marta Angela Agostina Moretto e Daniela Picamus, la mostra (aperta sino al 12 dicembre) è stata fortemente voluta dall’assessore alla Cultura Massimo Greco. «Trieste deve molto a Quarantotti Gambini e questa dimenticanza cittadina andava colmata. È stato uno scrittore importante, di statura europea, un intellettuale che non si è mai tirato indietro nell’impegno civile, registi famosi, Valerio Zurlini, per citarne soltanto uno, hanno tratto film dai suoi romanzi… Mi sembrava insomma incredibile lasciarlo giacere in un dimenticatoio un po’ colpevole e un po’ interessato».
La mostra rimanda al suo libro più famoso, quell’Onda dell’incrociatore che gli valse il premio Bagutta nel 1948 e che dieci anni dopo Claude Autant-Lara porterà senza successo sullo schermo con il titolo Les régates de San Francisco, Laurent Terzieff e Folco Lulli fra gli interpreti (la versione italiana si chiamerà Il risveglio dell’istinto). Quello originale era stato Umberto Saba a suggerirlo all’autore: «Guarda come apre e chiude bene – direi anche esattamente – la strana giornata nella quale si svolgono tanti fatti curiosi, nella realtà e nel ricordo». Ambientato negli anni Trenta nel porto di Trieste, la zona della Sacchetta dove il remo è lo sport virile e proletario e la vela ancora un passatempo da snob, raccontava le ansie e i dolori di Ario, stretto fra l’ammirazione e l’odio per Eneo, il fuochista campione di canottaggio di cui si è invaghita sua madre, la gelosia per Lidia, sorella dell’amico Berto e anche lei amante di Eneo… Finirà in tragedia, una tragedia non voluta e cieca, e quindi ancora più stupida, ma pochi scrittori come Quarantotti Gambini sono riusciti a trattare il tema dell’adolescenza e dei primi turbamenti sessuali, l’impasto fra innocenza, vergogna e colpevole quanto sfacciato piacere.
Eppure, il romanziere migliore non è qui, anche se questo è di prima categoria, né in La rosa rossa, l’altro suo titolo più celebre, ma nel ciclo Gli anni ciechi a cui egli lavorò per tutta la vita e che lasciò incompiuto, due parti su tre, sette storie su dieci. Doveva raccontare l’esistenza, vera, perché in parte autobiografica, e al tempo stesso immaginaria, di Paolo de Brionesi Amidei, dall’infanzia alla maturità, sullo sfondo di un’epoca che dalla Prima guerra mondiale arrivava agli anni Sessanta; giunse invece sino al tempo dell’adolescenza del protagonista, di cui dà conto I giochi di Norma… E tuttavia, Quarantotti Gambini aveva già in testa il ciclo completo e all’inizio del manoscritto di Le redini bianche che lo apriva, aveva piazzato il racconto-frammento Tre bandiere, l’angosciato ritorno in Istria, dopo la Seconda guerra mondiale, di un Paolo ormai uomo fatto e costretto a misurarsi con la scomparsa di un luogo, di un’identità, della sua stessa dignità.
Uscito postumo da Einaudi, Gli anni ciechi non è solo una straordinaria saga familiare, è un affresco storico di rara efficacia, il ritratto di quell’Italia non ancora tale, perché sotto gli Absburgo, e però vogliosa della propria indipendenza nazionale. È anche, e forse soprattutto, un puntiglioso immergersi nei sogni e nei desideri di un bambino, il mondo dei grandi visto con occhi infantili che non sono sempre occhi incolpevoli e spesso sono occhi pieni di ferocia, rancore, irrazionale violenza. Quarantotti Gambini è consapevole che l'età dell'innocenza è anche l’età dell’inganno e del desiderio che non ammette regole né freni. In Le redini bianche, La corsa di Falco, Il cavallo Tripoli assistiamo a un’infanzia favolosa che poi in L’amore di Lupo, Le trincee, I giochi di Norma, virerà sempre più al nero, via via che la guerra, gli anni, le passioni si fanno più ingombranti e l’antico equilibrio va in pezzi, fra lutti, compromessi, debolezze, silenzi.
Nell’atrio della sua casa veneziana di San Cassiano dove, cacciato da Trieste, si rifugerà nel 1945, Quarantotti Gambini aveva steso su una parete la grande bandiera di Semedella, la località istriana di vacanza della famiglia, fatta fare dal nonno, deputato al parlamento austriaco, ma patriota italiano. Rossa con la croce bianca nel cui centro c’era la Gorgona, l’antico stemma di Capodistria, veniva issata nelle ricorrenze felici, surrogato e/o sostituto di quel tricolore che per l’Austria-Ungheria sarà sino al 1918 un vessillo straniero e nemico… La sua italianità spezzata, continuò a viverla così, con un affidarsi alla memoria protettiva del passato, filtrato sulla pagina dalla lucidità di uno scrittore a cui la storia aveva sottratto a tradimento la possibilità di raccontare, con la stessa audacia usata per l’infanzia e l’adolescenza, l’età della ragione.