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L’Istria Café racconta la saga dei Pribaz (Il Piccolo 30 gen)

Chicago. Sulla porta a vetri, che si apre su un locale luminoso e lungo, la parola è dipinta in italiano: Istria Café. Piove e goccioline d’acqua si stampano sulla finestra grande quanto l’intera parete. La superficie del lago, poco lontano, è di un grigio appena più turchese del cielo; Chicago non è al meglio: the Windy City, la Città del Vento, rabbrividisce mentre il termometro scende. Marc Pribaz, 31 anni, il proprietario, non parla italiano. Però ha scelto lui il nome e conosce a memoria l’intera storia.

 

È il racconto di un lungo viaggio che inizia sul Carso, scende verso Trieste, si ferma un po’ lungo le Rive accarezzando l’idea di stabilirvi il nido, poi spicca il volo: verso l’Australia prima, e il Nordamerica poi. Con quel nome, Istria, pronunciato in famiglia ormai con tre accenti diversi (italiano, australiano, americano, a seconda della generazione) ma portato sempre con sé, come un tratto somatico dell’anima. Prima generazione Giuseppe Pribaz ed Anna Moliner. «Sono i miei nonni – racconta Marc -. Giuseppe è di Pedena, a mezz’ora a Trieste, nell’entroterra di Pirano. Anna di un villaggio a quindici chilometri di distanza. Si sono incontrati a una festa di paese. Mia nonna partiva scalza, da casa, con le scarpe in mano, per non impolverarle sulle strade sterrate: le rimetteva ai piedi solo per ballare». Il locale Il Caffè non possiede nulla di retrò; è metallo, granito, vetro e legno tagliati in forme semplici e pulite. Confina con il campus, ed i clienti sono in gran parte studenti della Università. Quando ancora Barack Obama era senatore ed abitava non molto distante, ci si fermavano a volte per un caffè gli uomini del suo staff, che frequentavano una palestra nei paraggi. Sui tavolini, e sul lunghissimo bancone accostato alla vetrata, libri, dispense, appunti, computer, cappuccini, paste, tazzine (cup) e tazze (mug), teiere, zainetti, caschi da ciclista.

 

Come in una biblioteca, si parla a bassa voce, con il contrappunto del soffio della italianissima macchina per il caffè. In sottofondo un sussurro di smooth jazz. «Abbiamo cercato di mescolare la tradizione europea ed il desiderio americano di un ambiente confortevole», spiega Marc. Sui divanetti ci si può anche sdraiare, e qualcuno lo fa. Marc è laureato in economica e commercio, e ha scelto il nome Istria perché voleva, per il suo business, un’idea che lo legasse alla terra da cui proviene: «Ho visitato Pedena qualche anno fa. Un paese piccolissimo: giravo per le strade, e mi pareva che tutti assomigliassero a Giuliano, mio papà». Storie di emigranti Marc è cresciuto in Australia ma è emigrato a 7 anni negli Usa, così come suo padre, cresciuto a Trieste, è emigrato a 7 anni in Australia. «Si è laureato in medicina a Melbourne e si è specializzato a Pisa. Mi racconta ancora oggi di come fosse strano essere un chirurgo che parlava l’italiano di un bimbo di 7 anni». «Mio nonno – racconta Giuliano Pribaz -, a Padena, ha portato l’elettricità. Era un operaio bravo a far tutto. Se n’è andato quando ha capito che la zona era destinata a diventare Yugoslavia. Tre scelte: Stati Uniti, Argentina ed Australia». Giuliano è cresciuto a Melbourne; lì è nato Marc. Si sono trasferiti in Nordamerica quando a Giuliano hanno offerto un contratto da chirurgo all’ospedale di Boston. «Siamo tanti, i Pribaz partiti dall’Istria verso il mondo. Con mio nonno erano sette fratelli: uno risiede oggi negli Usa. Ha vissuto una vita strana: militare prima con l’esercito italiano, poi con quello yugoslavo. Alla fine, ha tagliato la corda». Perché lui, con la stella rossa sul berretto, non ci voleva stare. Si chiama Emilio; ha novant’anni, ed abita in Florida. La memoria è ormai incerta. Invece, precisissima è quella di uno dei suoi figli: Sergio. Vive a Chicago, come Marc. Vicino a Gina, una delle figlie, che abita una casa con una veranda che dà sul bosco, e la bandiera americana alzata, tutti i sabati e le domeniche, su un pennone nel cortile. «Mio nonno è nato austriaco – spiega Sergio – mio padre italiano. Io sono americano. Eppure, siamo venuti al mondo tutti e tre nello stesso paese. E non è facile spiegarlo alla gente di qui».

 

Fuga dalla Yugoslavia Emilio, da italiano, ha fatto il servizio militare all’Aquila. Tornato a casa, è stato arruolato d’autorità nell’esercito yugoslavo. È scappato. Lo hanno ripreso, processato e rivestito nuovamente con la divisa. Commettendo un errore, l’hanno destinato a picchettare la frontiera. Nuova fuga. Questa volta per sempre. «Noi diciamo Pribaz – racconta Sergio -. Marc pronuncia Pribaes. E mia cugina, in Canada, scrive Pribas. Ma siamo tutti dello stesso ceppo». «Una volta arrivato a Trieste – prosegue – sono cresciuto a villa Rovinski, in Costiera, dove papà aveva trovato lavoro. Le prime scuole al castello di Miramare: una classe slovena – da bambino parlavo tutte e due le lingue – nel parco del castello, dove adesso c’è il bar. Tra gli italiani c’era chi mi diceva “s’ciavo”, ma nel giardino della villa c’era un ciliegio. Il primo di tutta la costa a fiorire e a dare frutti. Così, all’inizio dell’estate, s’ciavo o non s’ciavo, eravamo tutti lì, a piluccare».

 

Mentre i nonni di Marc hanno navigato per sei settimane da Trieste all’Australia, la famiglia di Giuseppe si è trasferita in aereo negli Stati Uniti. Un viaggio comunque lungo: Monaco di Baviera, Shannon in Irlanda, New Foundland in Canada, New York e infine Chicago. «Quando sono tornato per la prima volta a Padena – ricorda Sergio – ho attraversato la frontiera con una certa ansia. Da bambino non mi piacevano le guardie, e in paese mi avevano insegnato che certa gente doveva essere trattata con le molle, e starci possibilmente alla larga». Ultima generazione Gina, sua figlia, è sposata ad un medico di origine polacca. Hanno quattro figli. A Gina i nonni hanno insegnato a giocare a briscola, e capisce l’italiano. «Anche se adesso Emilio, ogni tanto, mi guarda e parla sloveno. Chissà chi vede, al posto mio». Ai figli, ha insegnato che le radici stanno in una piccola, complicata penisola lontana. La definisce, in inglese, “melting pot”: un calderone dove le etnie e le culture bollono e si mescolano. Sergio sorride, afferrato da un ricordo. «Da Padena, ho portato con me a Grignano un vaso pieno di cicale. Le ho liberate lì». Gli vengono in mente tutte le estati quando, nel bosco dietro casa, quelle di Chicago friniscono con un tale fracasso che, sulla veranda, bisogna parlare a voce alta.

 

Nereo Balanzin “Il Piccolo” 30 gennaio 2012

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