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L’Italia con noi non è stata una matrigna (Corriere della Sera 12 mar)

di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

Possiamo noi, trentini e altoatesini, fe­steggiare il compleanno dell’unità d’Ita­lia? Abbiamo noi motivo di ricordare con una qualche emozione questa data? Al di là dei noti pronunciamenti in proposito e delle conseguenti notissime polemiche, è la no­stra storia che autorizza la domanda.

Prima di tutto, l’unità per noi è venuta quasi sessantanni dopo, alla fine della Grande Guer­ra, e per una parte della nostra regione ha signi­ficato piuttosto una sottrazione di patria, nep­pure tanto ragionevole se si pensa che, mentre entrava a far parte della nazione una terra che di italiano aveva assai poco, ne usciva un’altra — l’Istria — che invece italiana era fortemente. Ma i grandi della terra, si sa, amano — o amava­no — tirare righe nette, senza badare troppo a sottigliezze di carattere culturale e linguistico, e pazienza se questi confini decisi in luoghi remo­ti sono poi stati spesso motivo dì guai, anche di sanguinose guerre.

In secondo luogo la nostra regione non era uno Stato indipendente come altre parti d’Ita­lia, ma apparteneva da lunghissimo tempo a una delle maggiori potenze europee, ed era per­ciò segnata nel profondo dalla sua cultura e am­ministrazione. Inevitabile, dunque, che il cam­bio toccato ai nostri nonni e bisnonni fu per buona parte di loro abbastanza traumatico, an­che perché risultato di una guerra crudelissima che la maggioranza dei nostri antenati aveva combattuto sui fronti lontani dell’antica patria.

Ciò nonostante, valutando i nostri novantan­ni da italiani — e sia permesso affermarlo a chi, per ragioni familiari, condivide entrambe le cul­ture, quelle della cosiddetta antica patria come quella della nuova — armi pur in parte difficilis­simi e tormentati, dobbiamo riconoscere che l’Italia con noi non è stata matrigna, tutto al con­trario, e non soltanto sotto il profilo, sempre ci­tato, strettamente economico. Siamo infatti — e non si tratta di cosa da poco — oggetto di am­mirazione, a volte d’invidia, siamo considerati e rispettati oltre che visitati da stuoli di turisti. E quella nostra certa diversità, che ci deriva dal passato, come del resto sempre succede per le diversità, si è rivelata un indubbio valore. Se fos­simo rimasti «di là» non è per niente sicuro che sarebbe andata allo stesso modo; e, comun­que, il recente referendum tirolese ce l’ha detto chiaro e tondo che non è il caso di girare indie­tro il film della storia. Festeggiare dunque si può, forse si deve, a prescindere dalla lingua che parliamo. Eravamo terra poverissima, aspra e affamata, mentre ora davvero non lo siamo più. E non sappiamo se l’evoluzione sarebbe sta­ta la stessa se fossimo rimasti negli antichi con­fini.

(courtesy MLH)

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