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L’Italia fa ”trendy” sulle rive del Carnaro (Secolo d’Italia 30 gen)

di Alessandro Grandi

Siamo trenta d`una sorte e trentuno con la morte.  Eia, l`ultima. Alalà. I versi di Gabriele D`Annunzio aprono il romanzo di Giulio Leoni (dandogli anche il titolo E trentuno con la morte) ripubblicato negli Oscar Mondadori. Un giallo ambientato negli ultimi giorni della Reggenza del Carnaro prima che il Natale di sangue mettesse fine, momentaneamente, ai sogni del Vate di restituire all`Italia una città che era appunto in maggioranza italiana. Dove si
parlava il veneziano "de mar" ma anche il quarnerino, della famiglia ladina. Al di là del racconto – tra psicanalisi, veggenti, futurismo, tecnologie mediche e, ovviamente, omicidi – il libro di Leoni ha il merito di riportare l`attenzione su avvenimenti che, in Italia, si cerca spesso di dimenticare poiché non corretti politicamente.

È scomodo ricordare che, sull`altra sponda dell`Adriatico, c`erano popolazioni italiane vergognosamente abbandonate non solo nell`immediato dopoguerra, perché la sconfitta comportava la rinuncia ai territori, ma anche dopo, da quell`Italietta di modesti politicanti
trasformati in statisti dal servilismo di giornalisti e scrittori.

Un`Italietta che odiava i profughi fiumani, istriani e dalmati perché la loro presenza obbligava al ricordo, alla presa di coscienza. Meglio dimenticare, meglio cancellare tutto. La Repubblica di Venezia? Mai esistita. Quanto era preferibile, per i governi italiani degli Anni `50 e `60, che i profughi istriani e dalmati prendessero la strada degli Stati Uniti o dell`America Latina. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore e dalla memoria. Così si evitava di dover chiedere al governo jugoslavo una seppur timida tutela dei nostri connazionali rimasti di là. E guai a parlare di danni, di restituzione delle proprietà rubate dai nuovi inquilini spediti da Tito a occupare case e terreni degli italiani. Basta ricordare l`imbarazzo con cui era stato accolto il ritorno in Italia dell`esule istriano Mario Andretti, emigrato in America e poi arrivato in Italia per correre in Formula I. Ora, però, qualcosa comincia a cambiare, per lo meno nella memoria italiana. Così a Torino sta risorgendo la Fiumana, la squadra di calcio che riprende il nome della formazione scomparsa nel 1943. A volerla rilanciare è Sergio Vatta, allenatore delle giovanili del Torino e scopritore di grandi talenti (Lentiní, per ricordarne uno). Ma anche nativo di Zara, da cui era fuggito da bambino grazie a una nave tedesca che aveva messo in salvo la popolazione italiana prima dell`ingresso in città dei titini. E ora Vatta vuole che la Fiumana diventi la squadra non solo degli esuli della città, ma di tutti gli eredi di chi ha dovuto abbandonare la Dalmazia e gli altri paesi dell`Istria (compresa la parte finita sotto la Slovenia). Una sorta di rappresentativa "nazionale", da iscrivere al campionato italiano. Sempre che, per evitare le consuete rimostranze del governo dì Zagabria, non si preferisca boicottare l`iniziativa nel nome del politicamente corretto.

D`altronde il problema dei rapporti tra italiani e croati, non è mai stato risolto. Ovviamente non sotto il dominio di Tito, impegnato nella caccia agli italiani e nel loro massacro con l`alternativa dell`esilio, ma neppure in precedenza e negli anni successivi. Persino quando le vicende della guerra avevano portato Italia e nazionalisti croati (gli Ustascia) dalla medesima parte, i contrasti sono rimasti vivi. «Lo g:iuriam sull`onore dei dalmati, che tra noi non esisterà un croato», si cantava durante l`ultimo conflitto.

Con i croati molto più vicini ai tedeschi che agli alleati italiani. Ma anche dopo, quando la dissoluzione della Jugoslavia e la conseguente guerra civile aveva visto riproporsi il sostegno da parte di numerosi gruppi oltranzisti italiani ai gruppi nazionalisti croati impegnati contro i bosniaci o i serbi. Non è stato sufficiente, non sono bastati i convogli di aiuti umanitari, gli invii di medicinali, cibo,soldi.

Appena terminata la guerra civile e insediato il governo croato, l`inimicizia nei confronti degli italiani è riemersa. Nessuna concessione agli esuli fiumani, che chiedevano non i sacrosanti indennizzi ma soltanto il diritto a ricomprarsi le case. Nessuna reale concessione. se non le solite dichiarazione demagogiche, sul fronte linguistico. Fiume è rimasta Rijeka e Ragusa Dubrovnik. Ignorando qualsiasi buon gusto e buon senso storico. Tutta la costa dalmata è contraddistinta da fortezze e palazzi con il simbolo del leone alato.

Un simbolo che ricorda i sette secoli di presenza veneziana. E fu proprio la tolleranza veneziana a far sì che serbi e croati, in fuga dai turchi, trovassero rifugio in Dalmazia dove divennero l`etnia dominante ma con il mantenimento della cultura e della lingua di
Venezia. Indubbiamente è una forzatura il testo di una canzone della Compagnia dell`Anello, laddove si sostiene che «in Dalmazia anche le pietre parlano italiano». Perché, in effetti, l`italiano non l`hanno mai parlato. Ma il veneziano sì. E la casa del veneziano Marco Polo è su un`isola dell`attuale Croazia, a Korcula(SIC), di fronte a Orebic. Ma se il governo di Zagabria finge di ignorare tutto questo, la popolazione croata ha modificato radicalmente gli atteggiamenti nei confronti degli italiani. E sono i piccoli imprenditori locali che hanno cominciato a intitolare locande e ristoratiti con il nome di Ragusa e non di Dubrovnik. L`italiano è sempre più diffuso nei bar, nelle trattorie, negli hotel, nei supermercati. Potenza degli affari, certo. A partire da un turismo che punta sempre di più sugli italiani, attirati da prezzi competitivi a fronte di un`offerta in continuo miglioramento. Mare, parchi naturali, cultura. Isole meravigliose, insenature da favola. E ad ogni passo i segni di un passato particolarmente familiare per gli italiani. Dalle vestigia romane di Spalato ai borghi veneziani lungo l`intera costa.

Anche gli imprenditori italiani sono già sbarcati sull`altra costa adriatica. E non soltanto per iniziative legate al turismo. Il comparto alimentare offre opportunità interessanti, dal settore ittico all`olio, al vino. Per non parlare del settore delle costruzioni, visto che la Croazia si sta dotanto delle infrastrutture indispensabili per affrontare il futuro. Un futuro che Zagabria vede all`interno dell`Unione europea. Indubbiamente molti passi sono stati compiuti, ma proprio l`ottusità dei comportamenti governativi nei confronti degli italiani (compreso l`ostentanto fastidio per il ricordo dei tanti infoibati) rallenta il processo di adesione. Eppure non sarebbe difficile per Zagabria, a distanza di così tanti anni, ammettere le responsabilità dell`ultimo periodo bellico e seguire l`esempio di pacificazione che arriva dalla popolazione croata. Riportando Fiume, Pola, Zara e tutta la Dalmazia a riavere un passato, quello vero. Ariappropriarsi di una storia che non può essere ignorata solo perché il presidente dì turno si sente imbarazzato nel dover riconoscere il ruolo di Venezia. Proprio mentre i croati riescono a convivere senza più problemi anche con i bosniaci che, sulle coste della Dalmazia, avevano le case per le vacanze ai tempi della Jugoslavia e ora tornano a ríabitarle nei periodi estivi. Musulmani e cattolici, fianco a fianco senza problemi. Italiani e croati gomito a gomito negli stessi bar. Anche senza la benedizione di Zagabria.

 

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