di PIETRO SPIRITO
SCHERBINA «Vidi Miloš l’ultima volta a Lubiana nel 1945, e da allora è scomparso, non ne ho saputo più nulla. Senza dubbio fu ucciso dall’Ozna». Stojan Fakin, 83 anni, osserva la foto di Miloš Adamicv appesa alla parete della sua antica casa rurale di Scherbina/Škrbina, abitato a due passi da Comeno.
Nella foto ingiallita dal tempo Miloš – figlio di prime nozze della stessa madre – ha poco più di vent’anni e indossa la divisa inglese. Fuori, nello spiazzo davanti alla casa, si sta preparando la cerimonia ufficiale che lo ricorda assieme ad altri diciassette nomi, protagonista assieme a loro di uno degli episodi meno noti del secondo conflitto mondiale, la guerra dei padalci, i paracadutisti sloveni, ex militari italiani, addestrati dagli inglesi nel Soe (Special operations executive, Agenzia operazione speciali), inviati a operare nelle file dei partigiani jugoslavi del IX Korpus di Tito, e in gran parte fatti fuori dall’Ozna, la polizia segreta organizzata dallo stesso Tito.
Ieri, come da tredici anni ogni 11 novembre (giorno in cui la Gran Bretagna ricorda i Caduti), ex agenti segreti come l’inglese John Earle, 89 anni, e l’americano Bob Plan, di 90 (oggi ambedue residenti a Trieste), reppresentanti delle ambasciate inglesi e americane a Lubiana, reduci di guerra, amministratori locali e, soprattutto, i pochissimi padalci sopravvissuti, si sono riuniti per la commemorazione pubblica di un pugno di combattenti che solo dopo l’indipendenza la Slovenia ha ufficialmente riabilitato. Come appunto Miloš Adamicv, nato proprio qui, a Scherbina, quindi cittadino italiano di madrelingua slovena, richiamato allo scoppio della guerra nel regio esercito come artigliere, spedito prima a Reggio Emilia e poi in Africa, fatto prigioniero a El Alamein, addestrato dagli inglesi come paracadutista-radiotelegrafista, lanciato nel settembre del 1943 in missione segreta nella Slovenia occupata dai nazifascisti, impiegato in delicati compiti di collegamento dai partigiani del IX Korpus, e infine fatto sparire dai suoi stessi compagni di lotta.
Destino che accomunò quasi tutta la squadra dei padalci, una trentina in tutto, giovani che tra il 1944 e il 1945 diedero un apporto fondamentale alle missioni del Soe e dell’Isld (Inter service liason department) nella lotta partigiana in terra jugoslava. Come Ivo Kobal, nato 93 anni fa a Ponikve, vicino Duttogliano, uno dei pochi sopravvissuti, che ieri ha ricordato i suoi compagni scomparsi e la sua avventura. «Allo scoppio della guerra – racconta – fui richiamato nell’esercito italiano nel 92.o Reggimento fanteria. Noi sloveni eravamo destinati lontano dai fronti orientali, perciò fui inviato prima in Francia, poi in Africa. Dopo la disfatta di El Alaimen fui fatto prigioniero dagli inglesi».
Selezionati nei campi di prigionia, ovviamente su base volontaria, i militari di madrelingua slava costituirono le Brigate d’Oltremare, Prekomorske Brigade, unità che avrebbero affiancato l’esercito di liberazione jugoslavo. Ed è in questo battaglione che gli inglesi scelsero ulteriori volontari da addestrare come paracadutisti-telegrafisti-sabotatori, legando così il loro destino a quello degli ufficiali di collegamento britannici aggregati all’alto comando del IX Korpus in almeno tre missioni principali, in codice le missioni Crayon e Clowder del Soe, e l’MI6 dell’Isdl.
La storia controversa e drammatica di queste operazioni l’ha raccontata fra gli altri lo stesso John Earle – anche lui paracadutato nei territori jugoslavi per comandare azioni con i partigiani in Serbia, Montenegro e Bosnia – nel recente libro ”Il prezzo del patriottismo” (ed. Iniziative culturali, con prefazione di Roberto Spazzali, recensito su queste pagine da Marina Rossi). Visti con sospetto dai partigiani di Tito, costretti a operare in condizioni ambientali spesso proibitive, gli ufficiali del Soe e dell’Isdl pagarono in alcuni casi con la vita il più piccolo sospetto di non essere in realtà preziosi alleati, bensì spie al soldo dell’imperialismo anglo-americano.
E le cose, in quei mesi drammatici, non andarono diversamente per le squadre dei padalci. Se Ivo Kobal ce l’ha fatta a sopravvivere alla guerra assieme a pochi altri (come Venceslav Ferjancvicv, di Idra, emigrato in Argentina, morto proprio lunedì e ricordato ieri in una messa nella chiesa di Scherbina), di altri dodici padalci non si è mai saputo più nulla.
Nella casa di Scherbina che fu di Miloš Adamicv, oggi diventata una specie di santuario laico dedicato alla memoria dei giovani paracadutisti delle squadre speciali, il fratello Stojan Fakin parla senza rancore: «Sono passati sessant’anni – dice – ma non mi sono rassegnato. Vorrei almeno sapere dove è stato sepolto Miloš, per portare un fiore sulla sua tomba, perché anche i miei figli e i figli dei miei figli ne possano onorare la memoria. Sono certo che c’è chi sa cosa è successo, qualcuno anche qui, nei paesi vicini, sa chi ha ucciso mio fratello. Non ho alcuna intenzione di denunciare nessuno, quello che è stato è stato, mi basterebbe sapere dov’è».
Negli anni della repubblica federale jugoslava i ricordo dei padalci italo-sloveni rimase sepolto assieme a tante altre storie scomode al regime socialista, e anzi scomode per tutti. Solo nel 1989 un libro dello storico ed ex partigiano Jože Vidicv (”Gli informatori inglesi – spie o eroi?”) sollevò un primo velo sulla vicenda, ma bisognerà aspettare il 1994 per l’avvio di una campagna di riabilitazione, sancita nel 1999 dal presidente Kucvan, che concesse ai ”pesci piccoli” – come li aveva definti durante la guerra il maggiore William Jones, ufficiale di collegamento al quartier generale sloveno – l’onorificenza collettiva dell’Ordine dell’onore e della libertà della Repubblica di Slovenia.