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L’Osservatore Romano – 300907 – Trasmigrazioni di arti e fede tra le sponde dell’Adriatico

PIETRO PETRAROIA

 

Da parecchi decenni ormai generazioni di studenti guardano malvolentieri i libri di geografia, che si presentano sempre più ponderosi e nozionistici. Peraltro da non pochi anni nell'editoria scolastica (forse la branca più prospera dell'editoria italiana) e nei «piani dell'offerta formativa» di numerose scuole si è affacciata la geostoria, per offrire una lettura della storia più attenta ai

luoghi degli avvenimenti, alle caratteristiche dei terrìtori, superando l'approccio dei pur utili atlanti storici di antica memoria. Piaccia o no ai veri geografi e ai veri storici, l'affermarsi di questa

commistione disciplinare denuncia l'impossibilità, nell'epoca in cui in Europa si è affermata l'istruzione di massa, di studiare la storia o la geografia con riferimento a confini di stati — solitamente definiti a tavolino da chi vince in guerra, servendosi dei nomi di monti, laghi,

fiumi, coste — che non ci danno conto della complessità di vicende, interessi, passioni, aspirazioni, di cui la carta geo-politica di un momento dato rappresenta l'esito cristallizzato eppure transeunte, benché ufficiale e reale. Ma si tratta spesso di un reale fittizio, che fa deragliare la ricerca del vero quando si pretenda di costringere in esso la storia delle lingue e dei dialetti, le costumanze delle comunità e tutto ciò che connota le relazioni effettive tra le persone; e la stessa storia dell'arte rischia di divenire un rompicapo insensato, quando si tenta di. incasellare la produzione di un'epoca nei confini statuali propri di un'altra, magari la nostra.

Ancor più sviante appare la geografia politica odierna se viene assunta a criterio di studio di quelle espressioni dell'arte che testimoniano lo scambio di espressioni di fede fra le comunità cristiane dei secoli passati.

Questo sembra essere — semplificando molto — il giudizio comune che ha fondato i molti e variegati apporti scientifici che hanno reso possibile la mostra «Arte per mare» su impulso del Vescovo della Diocesi di San Marino e Montefeltro, Mons. Luigi Negri. Un'impresa espositiva, curata da Giovanni Gentili e da Alessandro Marchi, che è intrinsecamente internazionale, .non solo perché realizzata in una diocesi che si estende fra territorio italiano e Repubblica di San Marino, ma soprattutto perché pone a tema, le trasmigrazioni d'arte e di fede fra terre che nei secoli (e soprattutto nel Novecento) sono appartenute ad entità statuali diverse e talvolta nemiche, mentre in passato fra le sponde vicine di quel tratto d'acqua, l'Adriatico, ci si muoveva velocemente come in un golfo di comune appartenenza, non considerandolo un mare di confine (separazione) fra stati, ma un ambito di incontri e scambi di prodotti, linguaggi, gusti. Ma — c'è 'da chiedersi — quale rapporto vi è tra l'assunto metodologico di questa mostra di archeologia e arte ed un compito eminentemente pastorale,

come quello di un Vescovo? «È l'evangelizzazione», afferma deciso Mons. Negri. «È la premessa per un autentico cammino catechetico. Ho detto ai miei preti che se facessero vedere bene queste opere, invece di fare tanti discorsi, la catechesi sarebbe più semplice, più radicale ed anche più sopportabile. L'arte dice la totalità del vero alla persona, nella sua concretezza storica; perciò l'arte penetra fin dove la persona l'accoglie, ma mentre penetra chiama in primo piano il cuore della persona e lo ama; e questa è la "carità intellettuale'».

Premessa della catechesi è qui, dunque, la testimonianza resa attraverso il racconto, puntualmente indagato con metodo filologico, di ciò che è avvenuto nel golfo adriatico attorno alla vicenda dei Santi Marino e Leone e, dopo di loro, lungo i secoli.

E la fedeltà alla filologia fa leggere nel catalogo della mostra che «la narrazione delle vite dei santi viene inserita in contesti non verificabili e 'addirittura vistosamente errati», perché nella loro Vita si fa riferimento contraddittorìamente alla data del 257 ma anche al tempo del «terribile, malvagio Diocleziano» (284-305). Eppure all'attività di costruttore dell'imperatore sembra corrispondere il lavoro dei due dalmati, dediti alla lavorazione della pietra e per questo forse pervenuti sul monte Titano; e gli studi più recenti, da un lato, ricollegano San Marino e San Leo al protovescovo di Rimini Gaudenzio e, dall'altro, collocano questi proprio al tempo di Diocleziano.

Ne risulterebbe un nesso fra i due santi lapicidi e le origini del cristianesimo a Rimini: Marino e Leone avrebbero lavorato a fine IH secolo alla costruzione delle mura cittadine; peraltro Diocleziano segue proprio gli imperatori illirici. Ma non manca chi collochi i due lapicidi tra la fine del IV e i primi del V secolo: forse troppo tardi, visto che già ai primi del sesto secolo il culto di Marino era da lungo tempo consolidato nel territorio, come attesta la preesistenza al 511 di un monastero a lui dedicato. Si tratta di temi complessi, che fanno emergere l'esigenza di indagare archeologicamente gli edifici religiosi di San Leo — e non soltanto più. antichi reperti, che aprono la prima sezione della mostra — presentata in luoghi di grande carica suggestiva a San Leo (Museo d'arte sacra) — risalgono peraltro agli

anni fra IV e V secolo e ci parlano di una comunità cristiana strutturata e solida, che dispone di una articolata iconografia leggibile tanto negli oggetti più semplici e diffusi, come le lucerne

fittili, quanto in opere più complesse, come il frammento di sarcofago con la Traditio Legis.

Ampiamente rappresentate le testimonianze in mostra delle arti della pietra e del mosaico a Rimini nei secolidell'alto medioevo; ma il punto di approdo di questa sezione è dato dalla capsella reliquiario in marmo greco proveniente dalla chiesa di Santa Marina a Novaféltria, prezioso segno di relazioni con l'oriente, e, soprattutto, dallo splendido volto del Crocifisso del tipo «triumphans» (cattedrale di San Leone), sul quale si leggeva in passato la datazione al 1205.

L'opera è quanto rimane di originario della grande croce lignea nella cattedrale di San Leone a San Leo e, benché frammentaria, è ora riconoscibile quale prodotto della pittura spoletina grazie al recente restauro; esso è stato reso possibile dalla decisione di Maria Rasarla Valazzi con Alessandro Marchi, di liberare il frammento originario raffigurante il volto di Cristo dalla soprammessa pittura seicentesca, fortunatamente distesa su distinta incamottatura.

Per visitare la successiva sezione della mostra, dal Duecento al Rinascimento, occorre discendere da San Leo e poi 'salire a San Marino, al Museo di San Francesco, affacciato sulla splendida

valle. E qui proprio la continuità della presenza francescana sulle due sponde dell'Adriatico ci introduce ad un percorso affascinante. Emblematico di un francescanesimo legato ai seguaci della prima ora è il trittico da Spalato (1320 circa), in cui alla Madonna col Bambino,

l'Hodighitria, si affiancano gli sportelli con San Francesco — significativamente barbato — e San Nicola, affiancati dagli offerenti.

La tematica francescana degli «spirituali» viene riproposta dal trìttico opera di un ignoto pittore adriatico (Pinacoteca Comunale di Forli), che presenta particolare interesse iconografico proprio per l'inserzione di San Francesco come «alter Christus», accanto alla Vergine ed in posizione simmetrica a San Pietro, nonché in un riquadro sullo sportello di destra con l'episodio delle Stimmate, che fa da

pendant al riquadro con la Deposizione di Cristo dalla croce nello sportello opposto, avendosi nel pannello centrale la rappresentazione dell'Ultima Cena.

In questa sezione della mostra emerge chiara la pregnante complessità della ricerca, figurativa e religiosa ad un tempo, intorno al «golfo» adriatico: lo attesta la sequenza di splendide opere di Giuliano da Rimini, Giovanni Baronzio, Paolo Veneziano (sua la tavola da Cesena con la Madonna in trono e otto angeli, firmata e datata 1347, emblema della mostra), Jacobello del Fiore (proveniente dal Museo Archeologico di Spalato).

La problematica dei linguaggi adria-tici in pittura viene riproposta, per il secolo XV, con opere di Antonio e Alvise Vivarini, Pietro Alemanno, Marco Zoppo. A lui viene confermato il tondo con la testa mozzata del Battista, prestato dai Musei Civici di Pesare: opera di impressionante espressività, resecata ormai dal contesto originario, che è stato riconosciuto in un grande polittico smembrato proveniente dalla primitiva chiesa pesarese di San Giovanni Battista.

Una selezione di opere di oreficerìa e in scultura (splendido il rilievo inpietra d'Istria da Sebenico, raffigurante la Madonna col Bambino, di Nicolodi Giovanni Fiorentino, studiato di recente da Matteo Ceriana) mediano il passaggio al secolo XV, che si ferma, al termine di questo percorso,

sulla bottega di Benedetto e Bartolomeo Coda. Si esce da questa mostra consapevoli di aver compiuto non soltanto un'esperienza d'arte e di storia, ma soprattutto un viaggio fuori del comune, in parte reso obbligatorio dall'articolazione in due sedi espositive; forse è un vero e proprio pellegrinaggio alle radici di una comunità diocesana e della sua identità specifica, con la scoperta di ciò che la rende per tutti preziosa e insostituibile, ma, proprio per questo, con la provocazione ad un'apertura del nostro sguardo oltre confini stabiliti ed ufficiali, verso la vastità di un'esperienza di fede, di ricerca e di comunicazione culturale, che non appaiono fra di loro in contraddizione per il fatto di proporsi in tutta la loro reale complessità.

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