Per gentile concessione, dal libro ”Claudio Magris. Argonauta” (Forum Editrice) a cura di Danilo de Marco e J.A. Gonzales Sainz, pubblichiamo l’intervento di Evelyne Pieiller, scrittrice e giornalista francese.
di EVELYNE PIEILLER
Credo che Claudio Magris sia uno di quegli umani poco frequenti che sono assolutamente calamitati dalla bontà. Viviamo in un tempo così devastato dalla stupidità che si tratta ormai di una parola floscia, vaga e inoffensiva, di cui per di più non si vede francamente il rapporto che può esistere con la condizione di scrittore, salvo che avvicinandola ai buoni sentimenti che, come peraltro tutti sanno, non bastano certamente a fare ”buona”Q letteratura. Ora, la bontà non ha intrinsecamente nulla a che vedere con la scempiaggine palpitante, essa ne è, anzi, la nemica.
È ciò che ci permette di distanziarci dal piccolo narcisismo seducente per accompagnare la diversità del mondo e ”preservare l’amore della vita complicata”. La bontà non ha nulla di sempliciotto, di ovvio, di gentile e non è nemmeno una qualità innata; si fa desiderare, conquistare, poi si sperde, si ridefinisce. Un lavoraccio.
Essa esige che ci si disfi di ciò che, in sé, chiude alla sorpresa, alla contraddizione; reclama che ci si spogli della propria vanità senza finire nelle seduzioni di uno pseudo-misticismo che pretenderebbe – saggezza da bazar – di abolire l’”io”; essa impone di non allearsi con ciò che ama uccidere: cioè, specificamente, quella forma di corbelleria soddisfatta che chiamiamo cinismo, che crede di pensare quando invece non è che insufficienza del pensiero e il suo esatto rovescio, la sentimentalità – due posizioni siamesi che eliminano tranquillamente ogni differenza tra il pregevole e lo spregevole, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, che uccidono il pensiero e le sue scelte, che bloccano ogni possibilità di comprensione e di trasformazione nella paralisi di una confortevole e vuota generalità.
Lo scrittore che scopre la necessità della bontà è evidentemente agli antipodi dell’uomo di lettere e non si preoccupa di compiersi prima di tutto in quanto artista. Ciò che gli importa è compiere la sua umanità.
L’opera è allora uno dei modi di compierla ma, quale che sia l’importanza intima che riveste, essa non è di per sé un assoluto, ma piuttosto un modo di fissarne vertigini e illuminazioni, crudeltà e stupori, e anche di scoprirli, di renderli abitabili. Quando ci si nega, per quanto ciò sia possibile, ai poteri incantatori delle forze di morte, estremamente vicine, quali che siano le loro maschere, alla potenza della stupidità, quando ci si rifiuta di non vedere che si è singolo e comune, quando ci si rifiuta di non accogliere ciò che è ”l’aurora delle cose”, ”la grazia dell’esistenza”, il rumore della pioggia e il dolore delle cose effimere, quando ”non si rinuncia mai all’esistenza individuale e all’esigenza di un senso” si pratica allora quella ricerca della bontà che è allo stesso tempo una lettura critica di sé e della rappresentazione del mondo, una riflessione su ciò che limita il nostro accesso alla stranezza delle presenze e una fondazione di valori.
È proprio l’opposto della ricerca del Bell’Ideale o della deplorazione dell’Impossibile Unità.
Ed è ciò che fa nascere un realismo nuovo, non certo, ovviamente, quello fantasticato in lungo e in largo dai commentatori del tempo, attribuito a Maupassant o ai suoi pari, bensì quello che si incaricherà di raccontare il nostro tempo, i nostri paesaggi, epopee e scappatelle nella loro ”ambigua molteplicità”. Con Claudio Magris siamo ben lungi dal piccolo realismo del senso comune che rispetta i dati dell’ideologia dominante, e ben lungi dal gioco formale che tuttavia li rispetta ma se ne rende meno conto. Perché egli riconosce ”l’identità come arcipelago”, perché sa che ognuno fa frusciare dei fantasmi, quelli della storia collettiva e quelli della propria storia, perché accetta il disordine e la disperazione dei mortali, ma senza mai rinunciare a enunciarli, e ciò che nasce dal rumore e dalla confusione è, allora, anche fraternità e consolazione, perché egli non rinuncia mai a questa tensione tra lo splendore infinito della narrazione infinita della vita e dei viventi e la violenza delle incarnazioni – pre
cisamente questa tensione che io chiamo bontà – allora può evocare una realtà dirompente e fugacemente immortale che è la nostra, al di fuori dei modelli dell’avanguardia o della retroguardia, seguendo il filo di racconti sempre più o meno segretamente polifonici e che intendono evitare la menzogna dell’”io” chiuso e domato tanto quanto quella dell’”io” perdutamente forato.
L’uomo di Magris è rotture e lirismo, ironia e mormorio, è mondi, è restio alla menzogna del senso unico, ma nel senso stellare del senso… in tutti i sensi del termine.
Vi è qui ciò che fa parte delle bellezze più necessarie: l’opera di Claudio Magris, ove agisce e si dà forma ”la vera bontà, disincantata”, ci rende fraterni a noi stessi, noi che siamo orfani di una comune grandezza, di sogni da far avverare, d’amicizia per il nostro tempo e anche per noi stessi. Essa sa trarre armonie da tutte le nostre voci, le nostre contraddizioni, i nostri lutti, le nostre burle nel ronzio della Storia e l’eterno sommovimento della vita e dei cieli che passano e si sa allora che possiamo abitare il mondo, anche se esso stesso è legato alla notte, che possiamo abitare in noi stessi anche se incrinati e sperduti. Non siamo alla fine della Storia e neanche delle storie, pathos fallace: con Claudio Magris si ritrova il desiderio magnifico di avventurarsi in tutti questi esili, che sono le nostre terre promesse e le nostre odissee. La fine, senza dimenticare noi stessi, diviene percorso. È una meraviglia.