Pubblichiamo un brano del ”Ricordo di Diego de Castro”, scritto da Claudio Magris per il libro ”Diego de Castro” (Daniela Piazza Editore).
di CLAUDIO MAGRIS
Ho conosciuto personalmente Diego de Castro durante il mio primo anno di università a Torino, nel suo studio universitario, in quella facoltà torinese in cui esercitava, come più tardi a Roma, il suo straordinario magistero accademico, scientifico e didattico di protagonista di una scienza sempre più essenziale per la comprensione del mondo in cui viviamo, la statistica. Ma lo conoscevo già, indirettamente, da ben prima; attraverso i diretti racconti e la testimonianza di mio padre e attraverso le vicende triestine degli anni in cui Trieste, più che un cosiddetto Territorio Libero, era una terra di nessuno fra due sbarre di frontiera, dall’incerto destino che significava pure l’incerta appartenenza futura non solo all’Italia o alla Jugoslavia, bensì anche all’Occidente o all’impero di Stalin e che dava una grande sensazione di precarietà in merito al futuro in generale, metteva in dubbio lo stesso futuro.
Quando l’ho conosciuto, o meglio quando sono stato accolto con eccezionale umanità e affettuoso incoraggiamento da lui a Torino, gli ero già grato per la parte eminente che aveva avuto in quelle vicende che avevano contribuito a determinare il destino della mia città e dunque anche il mio, per aver contribuito con tanta passione e saggezza ad evitare il peggio e ad ottenere il possibile, un possibile che in certi momenti senza di lui sarebbe stato probabilmente impossibile. Da allora, il nostro rapporto si è fatto via via sempre più profondo ed intenso; sempre regolato da quella sua discrezione, da quel suo stile in cui la vicinanza e l’affetto erano garantiti, protetti da ogni retorica, proprio dal rispetto di quella distanza iniziale (che da parte mia era ed è naturalmente il senso della gerarchia intellettuale e spirituale). Una distanza progressivamente superata non in maniera retoricamente e dunque falsamente confidenziale, bensì con un avvicinamento sostanziale. Il suo incoraggiamento, la sua stima, la sua amicizia, gradualmente crescenti negli anni, sono stati e sono per me un grande regalo; il suo interesse per ciò che scrivevo, ad esempio per il Mito Asburgico, per il libro su Trieste scritto da me insieme ad Angelo Ara, o, ancora di più, per ”Verde Acqua” di Marisa Madieri, costituiscono per me un vero premio, un giudizio che è una conferma e un conforto.
Diego de Castro è stato molte cose. Un grande studioso e un maestro innovatore nella sua disciplina, la statistica; un intellettuale prestato alla politica che – senza considerarsi politico o, come è stato definito, ”uomo politico suo malgrado” – ha capito la politica molto meglio di tanti politici di professione. Non si è mai attribuito, grazie al suo disincantato e autocritico realismo, un ruolo superiore a quello che svolgeva e che non era nemmeno un ruolo veramente politico, il che gli ha permesso di fare politica molto meglio di tanti professionisti della medesima e di ottenere risultati che altri non avrebbero conseguito. Anche per questo va a lui la gratitudine di tanti di noi e non solo di noi triestini, giuliani e istriani e dalmati come lui. È stato anche un grande uomo di cultura, capace di vivere a fondo la vita e di raccontarla. Ed è pure stato – nell’esercizio di una scienza come la statistica che non sembra concedere molto al cuore e ai sentimenti e nell’esercizio di una attività spesso demonica e segnata dalla spietata logica di potenza come la politica – un uomo buono, profondamente buono. Non buonista, non sentimentale; buono. E la bontà, contrariamente a quanto credono i cinici da strapazzo, non è pappa del cuore, ma è il suo contrario; è conoscenza disillusa e amorosa degli uomini, della vita, delle debolezze e del dolore, ed è intelligente capacità e volontà di lenire, nei limiti del possibile chiaramente individuati, quelle debolezze, quelle sofferenze e quei dolori. La sua bontà era indissolubilmente connessa al rispetto, all’ironia e all’autoironia, al senso concreto della realtà.
Alla fine della sua autobiografia, egli si definisce una ”biblioteca che sta morendo”, ossia una consapevolezza e una testimonianza culturale di un mondo che egli vedeva scomparire e di cui si considerava modestamente e autoironicamente un testimone, quasi un titolo bibliografico, un documento. Era la sua pietas – anche la sua autoironia – a dire così, perchè egli è stato certo un testimone, ma soprattutto un protagonista; non solo un autore di splendidi libri (”La questione di Trieste” è un classico definitivo, anzi il classico storiografico, storico e politico su quel grande capitolo di storia) ma anche un protagonista sul quale si scrivono libri.
Scienza rigorosa, straordinaria capacità di divulgazione non semplificatoria della scienza medesima, quale traspare dall’attività giornalistica, severa e piacevolissima, anch’essa segno di una grande generosità, della felicità di trasmettere, di dare, di donare; proprio perchè credeva nella sua scienza, non si limitava, come molti altri, a farne un prezioso e inaccessibile hortus conclusus, ma voleva aprirla agli altri, persuaso com’era della sua utilità per e nella vita di tutti. E questo era connesso alla sua bontà, alla sua staordinaria, dissimulata e profonda bontà. Diego de Castro era buono; non buonista, ma di quella forte bontà – parola così spesso inflazionata, svalutata e distorta – che non indora la pillola, rifugge dal sentimentalismo, guarda in faccia lucidamente e spietatamente le cose e proprio per questo, per questa capacità di vedere a fondo nel cuore non certo limpido degli uomini, sa aiutarli.