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Maria Pasquinelli: l’ultima irredentista di Pola (Avvenire 17lug13)

di Lucia Bellaspiga

Era una mattina di pioggia a Pola, il 10 febbraio del 1947, quando tra la folla una giovane donna in cappotto rosso alzò il braccio con la pistola in pugno e fece fuoco tre volte contro il cuore di un uomo. A terra rimase il corpo di un alto ufficiale inglese di 38 anni, il generale di brigata Robert De Winton, comandante delle forze alleate che presidiavano il capoluogo istriano. Nel fuggi fuggi generale solo lei, Maria Pasquinelli, restò immobile aspettando l’arresto. Nelle stesse ore a Parigi, con il famigerato Trattato di pace, l’Istria, Fiume e la Dalmazia stavano per essere cedute definitivamente alla Jugoslavia di Tito: e anche per i trentamila abitanti di Pola, come già era avvenuto nelle altre città giuliano-dalmate, l’esodo sarebbe stata l’unica via per sfuggire alla mattanza e alle foibe. Da mesi ormai la città dell’Arena si stava svuotando, si partiva per restare italiani, portandosi appresso le salme dei genitori e dei fratelli, ma quel lugubre 10 febbraio (oggi celebrato come Giorno del Ricordo) Robert De Winton sentiva forse il peso di essere l’uomo che a ore avrebbe ceduto l’italianissima Pola al dittatore comunista. Forse pensava alla moglie e al figlio di sei mesi che presto avrebbe rivisto, quando il suo sguardo incrociò quello della giovane vestita di rosso, l’ultima degli irredentisti secondo gli esuli istriani, venuta da Milano per compiere la sua estrema azione di ribellione contro un’ingiustizia.

Lui oggi avrebbe 105 anni, lei ne aveva cento e mezzo giorni fa, quando l’abbiamo incontrata per l’ultima intervista prima della morte. Maria Pasquinelli, drammatico e controverso personaggio della storia del Novecento, ha chiuso gli occhi il 3 di luglio in una struttura per anziani di Bergamo, la stessa in cui chiedeva solo di essere dimenticata. C’era anche riuscita, dopo che per decenni aveva rifiutato ogni intervista e fatto perdere le sue tracce, al punto che Wikipedia e più di un libro la davano per scomparsa da tempo (solo qualche esule sapeva di lei, come si evince dall’appassionato libro La giustizia secondo Maria di Rosanna Turcinovich Giuricin, edito da Del Bianco cinque anni fa).

«Vivo con l’ombra di quell’uomo, il mio morto me lo porto sulle spalle». Poche le parole che la Pasquinelli ha accettato di dirci su un passato che non ha mai finito di tormentarla. Una cosa è certa, «quel giorno dovevo morire anch’io», per questo era rimasta ferma sulla via di Pola ad aspettare gli spari dei militari inglesi. Invece fu arrestata e processata a Trieste dal governo militare alleato, che la condannò a morte (pena poi commutata in ergastolo). «La decisione di questa Corte è che lei venga uccisa. Può appellarsi entro trenta giorni contro questa decisione», fu la sentenza del giudice il 10 aprile del 1947, ma la donna, che si era subito dichiarata colpevole, non fece un passo indietro: «Ringrazio la Corte per la cortesia usatami, ma sin da ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra», si legge ancora oggi nei verbali.

Ma perché una maestra elementare di Milano, amatissima dai suoi alunni (ancora oggi) per l’assoluta abnegazione verso gli ultimi, sempre schierata dalla parte dei più deboli e sfortunati, era diventata assassina e in una terra così lontana? Ed era soltanto un’assassina, oppure dietro il suo gesto, esecrabile e tremendo, c’era quell’afflato per cui ad esempio un Guglielmo Oberdan, impiccato dagli austriaci per aver organizzato un attentato irredentista, per noi che gli dedichiamo le piazze era un patriota? «Qui a Milano la conoscevamo tutti come persona dolcissima, che nel quartiere della Bicocca insegnava ai dipendenti della Pirelli, tra le case popolari, ma entrava anche nelle famiglie dei suoi alunni – testimoniano Giuditta e Annibale Perini, suoi amici dagli anni ’40 -: la notte faceva assistenza ai genitori malati nelle case povere, di giorno dava ripetizione ai più fragili». «Era uno spirito libero, un carattere forte – commenta Guido Brazzoduro, sindaco di Fiume in Esilio -, a 17 anni aveva vinto la cattedra, poi nel 1941 era partita per l’Africa come crocerossina, ma per raggiungere la prima linea e poter operare dove si moriva si tagliò i capelli e si vestì da soldato… Fu scoperta e rispedita in patria». Precorrendo i tempi, si era anche recata a Perugia per laurearsi in pedagogia, poi al ritorno dall’Africa la richiesta di trasferimento nelle scuole di Spalato, in Dalmazia, e lì l’angoscia di fronte al genocidio operato da Tito sotto gli occhi indifferenti degli Alleati.

«Nei negozi di macelleria vide i corpi appesi», riferisce Brazzoduro. «Dalle autorità croate nel 1943 ebbe il permesso di recuperare dalle fosse comuni oltre cento salme di italiani fucilati dai titini e lì trovò i suoi amici, anche il preside della sua scuola, insieme a noti antifascisti». Ma il peggio lo vide poi a Pola con la strage di Vergarolla (un centinaio di persone, soprattutto bambini, dilaniate in spiaggia da mine nascoste nella sabbia) e il dramma delle foibe. È lì che l’animo inquieto della professoressa maturò il drammatico gesto, snaturando quella generosità che a Milano tutti conoscevano: «Ho amato la mia patria più della mia anima», ha provato a spiegare, conscia che quell’anima pesava troppo nonostante il perdono chiesto alla giovane moglie dell’inglese ucciso e da lei ottenuto.

Il resto è una storia di silenzio e dedizione: «Nel suo animo è sempre rimasta maestra, insegnava alle altre detenute e soprattutto si occupava dei bimbi delle carcerate, reclusi con le madri fino ai tre anni», racconta l’amica Giuditta. Nel carcere di Perugia la coscienza di Maria Pasquinelli trovò l’amicizia, o almeno la comprensione, di un’altra anima tormentata, quella di Rina Fort, il “mostro di via San Gregorio”, per anni impegnata a tessere vestitini per neonati pur di cancellare dalle mani il sangue dei tre bambini da lei uccisi a Milano…

E proprio le mani guardavamo a Maria Pasquinelli giorni fa, nell’assurdo tentativo che sempre si fa di trovarvi qualche traccia dell’antico gesto. Invece solo un debole sorriso sul volto di un’anziana signora sconosciuta anche ai compagni di ospizio. Nel 1964 il presidente della Repubblica Saragat le concesse quella grazia che lei aveva sempre rifiutato e che allora accettò per accudire una sorella morente, prima di seppellirsi da sola nell’oblio. Nel 1965 l’ultima intervista rilasciata a un giornale, poi fino a oggi il silenzio, perché? «Molti hanno tentato di reclutarmi anche in politica, ma il mio morto non deve rendermi nemmeno una lira». È morta due giorni dopo il ritorno di Pola nell’Europa unita e libera, il traguardo per cui 66 anni prima si era dannata. A noi ha chiesto di pubblicare la sua unica intervista soltanto a funerale avvenuto.

L’abbiamo esaudita.

«Seguendo l’esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibile come Loro all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi dal settembre 1943 a oggi solo perché rei d’italianità, a Pola, irrorata dal sangue di Nazario Sauro, capitale dell’Istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia…».

Con questo biglietto trovato nella tasca del suo cappotto, Maria Pasquinelli, convinta di morire sotto il fuoco degli inglesi, lasciò scritto il movente del suo gesto omicida. «Mi ribello – prosegue il testo -, col proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentare i Quattro Grandi, i quali alla Conferenza di Parigi in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare una volta ancora dal grembo materno le terre più sacre all’Italia», condannando «le nostre genti indomabilmente italiane» ai grandi drammi che davvero sconvolsero le popolazioni giuliano-dalmate e la mente stessa di Maria Pasquinelli: «la morte in foiba, la deportazione, l’esilio».

 

(L.B. su Avvenire del 17 luglio 2013)

Libro
Un atto controverso
Maria Pasquinelli, laureata in pedagogia ed insegnante, uccise il generale inglese Robin W. M. De Winton a Pola, la mattina del 10 febbraio 1947, il giorno in cui a Parigi veniva sancito il passaggio dall’Italia alla Jugoslavia di Fiume, Zara, le isole Lagosta e Pelagosa, l’alta valle dell’Isonzo, gran parte del Carso triestino-goriziano e dell’Istria.
La data del trattato è stata assunta come Giorno del Ricordo per le popolazioni italiane. Il libro “La donna che uccise il generale. Pola, 10 febbraio 1947” (Ibiskos, pagine 248, euro 12,00), di Carla Carloni Mocavero, riguarda l’unico, terribile atto di violenza compiuto in nome dell’esodo e della perdita delle terre italiane. Nata a Firenze nel 1913, la Pasquinelli si diplomò maestra elementare e successivamente si laureò in pedagogia a Bergamo; nel 1940 si arruolò volontaria crocerossina al seguito delle truppe italiane in Libia e nel 1942 chiese di essere inviata come insegnante in Dalmazia. Dopo l’attentato fu processata dalla Corte militare alleata di Trieste: la condanna, a morte, fu poi commutata in ergastolo. Nel 1965 tornò in libertà dopo la grazia concessale dal presidente Saragat.

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