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Messaggero Veneto – 090208 – Tutti ricordano, nessuno conosce

di FULVIO SALIMBENI

Il 27 gennaio Giorno della memoria, il 10 febbraio Giornata del ricordo,
inchieste nazionali sulla conoscenza da parte dei giovani delle vicende in
tali date celebrate – persecuzione razziale degli ebrei, foibe ed esodo
dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia – che danno risultati sconfortanti. E'
su tali dati che bisogna riflettere senza ipocrisia o retorica, domandandosi
schiettamente come e perché ciò possa accadere. La prima operazione da
compiere riguarda il fatto stesso dell'assommarsi di simili manifestazioni e
i modi in cui esse vengono svolte, insistendo sempre sulla necessità di
rammemorare questo tragico passato e di non scordare.

Se ciò è innegabilmente vero, non è però sufficiente, anzi rischia di
divenire controproducente nella misura in cui viene enfatizzato e ripetuto a
ogni occasione, concentrando l'attenzione solo sulle tragiche vicende del
1941- 1945 in particolare e assolutizzando la tragedia ebraica, vista come
epifania unica del male assoluto o esito sanguinoso d'una non meglio
definita follia che avrebbe pervaso il popolo tedesco, mentre sul versante
delle foibe e dell'esodo l'unica variante è che la colpa è della barbarie
slavo-comunista. Però anche in questo caso si sarebbe di fronte a un
episodio unico nella storia europea. Fintanto che si persevererà su questa
via, facendo a gara tra politici, giornalisti improvvisatisi storici e
pseudoesperti d'occasione nel limitarsi a deprecare e a condannare, dando la
parola ai sopravvissuti solo per raccontare le loro disgrazie non si otterrà
altro che un senso di stanchezza e di legittima reazione a questa
imperversante retorica dei buoni sentimenti, che nulla ha a che vedere con
una seria e corretta ricostruzione storica, unica via per intendere davvero
come e perché certe immani tragedie siano potute accadere nel secolo del
progresso.

Che poi i giovani nulla o ben poco di tutto ciò sappiano dipende da
molteplici fattori, principale dei quali lo sfascio, ormai da tutti
riconosciuto, del sistema educativo nazionale, che si denuncia, ma che non
si affronta se non a parole. Quando, dieci anni dopo le direttive Berlinguer
sulla necessità di dedicare l'ultimo anno delle scuole secondarie allo
studio del Novecento, la schiacciante maggioranza degli studenti consegue la
maturità essendo arrivata con il programma di storia sì e no, nel migliore
dei casi, alla seconda guerra mondiale e nessuno prende i dovuti
provvedimenti nei riguardi dei responsabili di tale assurda situazione, che
si connota come una sorta di sabotaggio e di rivelazione d'incapacità o
negligenza didattica, è chiaro che non si può pretendere che la Shoah, le
foibe e l'esodo siano conosciuti come si dovrebbe e vorrebbe.

Non basta certo riservare un giorno all'anno, grondante d'enfasi e di bei
discorsi, a tali eventi, dimenticandosene negli altri 364, per mettersi il
cuore in pace, dimostrando, con ciò, d'avere una concezione meschina della
conoscenza storica e della spiegazione dei fenomeni politici, culturali e
religiosi.

Contro la parcellizzazione delle memorie dolenti, contrapposte le une alle
altre, i cui amministratori sembrano impegnati solo a proclamarne la
rispettiva assolutezza e unicità rispetto a qualsiasi altra, è necessario,
invece, decidersi una buona volta a spiegare e far capire il luttuoso
passato novecentesco, costellato di genocidi, deportazioni, esodi forzati,
annientamento di minoranze etniche, sociali, confessionali, nella sua
unitarietà e complessità, contestualizzando le catastrofi della seconda
guerra mondiale in una prospettiva internazionale e di lungo periodo, che
deve riguardare almeno gli ultimi due secoli, dalla settecentesca stagione
dei Lumi a oggi, caratterizzati dall'affermarsi delle idee di "nazione", con
la sua deriva nazionalista, e di "razza", ben presto degenerata nel
razzismo, e dall'ascesa delle masse, con l'atomizzazione e disumanizzazione
degli individui, divenuti anonime particelle d'imponenti, anonimi aggregati
sociologici. In questo modo s'eviteranno la concorrenza e la sovrabbondanza
di ricorrenze memoriali – meglio di tutto sarebbe, a questo punto, trovare
una data unica in cui ripensare un secolo non a caso definito "assassino",
"criminale", "del male", quando s'è trattato di delinearne un bilancio
conclusivo – facendo intendere agli studenti, così come alla cittadinanza, i
tormentati processi tramite i quali si è giunti allo scatenamento di tante
bestialità, di cui corresponsabile è l'intera Europa e non solo la Germania
nazionalsocialista e l'Italia fascista.

Tony Judt, in un saggio tanto stimolante quanto ponderoso, appena tradotto
in italiano da Mondadori (Dopoguerra. Come è cambiata l'Europa dal 1945 a
oggi), s'è soffermato su tale questione così come, con analoga lucidità, sui
processi psicologici postbellici di rimozione da parte dell'opinione
pubblica di queste macchie indelebili della civiltà (meglio sarebbe dire
"inciviltà") d'un continente non pochi presunti maîtres à penser del quale
ritengono sua missione esportarla, insieme con la democrazia, in Africa e
Asia.

Solo in siffatta ottica è possibile allora parlare di ricomposizione delle
memorie in un organico disegno storico della barbarie novecentesca, nel
quale il tentato genocidio ebraico diventa simbolo dei massacri degli armeni
nella Grande guerra, di hutu e tutsi nella crisi dei laghi australi africani
degli anni Novanta (quasi un milione di morti in meno d'un anno, ma di loro
quasi nessuno si ricorda, a riprova, parafrasando Orwell, che alcuni popoli
sono più uguali degli altri e che l'Africa resta un buco nero nella storia e
nella coscienza generale) e ancor prima della grande carestia indotta da
Stalin in Ucraina per stroncare le resistenze contadine alla
collettivizzazione (circa sette milioni di morti in due anni) tanto quanto
del cosiddetto autogenocidio nella Cambogia di Pol Pot.

Del pari gli infoibamenti nell'area dell'Adriatico orientale e l'esodo di
buona parte della popolazione, non solo italiana, giuliana, fiumana e
dalmata sono il risvolto localizzato d'un fenomeno europeo che colpisce in
special modo gli Stati dell'area danubiana e balcanica, plurietnica per
eccellenza, eredi degli imperi multinazionali travolti dalla Grande guerra.

Fintanto che, nell'uno come nell'altro caso, per un verso vi sarà chi
insisterà sul tema dell'unicità delle rispettive esperienze, senza
storicizzarle, sottolineando solo il macabro (vi sono, purtroppo, dei
professionisti in materia, invitati anche nelle scuole, che sembrano
compiacersi nel ribadire gli aspetti più truculenti, senza compiere alcuno
sforzo di valutazione critica rispetto a quanto espongono) e per un altro la
scuola non saprà proporre in termini davvero storiografici i due argomenti,
valorizzando anche le nuove fonti e metodologie (si pensi solo all'utilità
del cinema e della letteratura da questo punto di vista), il risultato
sempre più prevedibile sarà quello del via via più accentuato fenomeno di
ripulsa, o almeno disinteresse, nei riguardi di queste giornate, il che
spiega i responsi negativi dei sondaggi tra gli studenti e i comuni
cittadini al riguardo.

Ciò, d'altronde, è pure dovuto alle strumentalizzazioni politiche spesso
percepibili, dal momento che, come amaramente notato anche da non pochi
intellettuali israeliani ed ebrei italiani – con ciò immediatamente
incorrendo nelle ire di quell'esempio insuperato di faziosità ch'è il sito
www.informazionecorretta.com – il ricordo della Shoah viene di frequente
addotto a giustificazione e copertura della condotta dello Stato di Israele
nei Territori occupati e nei confronti degli arabi palestinesi, facendo sì
che qualsiasi voce critica venga immediatamente bollata d'antisionismo e
antisemitismo, mentre sul versante del dramma adriatico vi sono ancora
taluni che ne fanno uso per battaglie ideologiche di retroguardia o per
speculazioni meramente elettorali, che finiscono con l'irritare e
allontanare proprio quanti si vorrebbe coinvolgere e informare.
Il modo migliore per un approccio intelligente e serio a così scottanti
materie è quello indicato nello scorso settembre dalla Fondazione Ambrosiana
Paolo VI, di Gazzada, che ha dedicato la consueta settimana annuale di studi
sulla storia religiosa europea al ruolo in essa avuto in ambito filosofico,
teologico e spirituale dalla componente ebraica dall'antichità ai giorni
nostri, laddove i rappresentanti delle principali associazioni della
diaspora giuliana e dalmata in un per più versi autocritico seminario
veneziano di due mesi fa con studiosi esperti del settore hanno giustamente
convenuto che il discorso su foibe ed esodo va visto e presentato nel quadro
delle bimillenarie vicende politiche e culturali della civiltà fiorita sulle
due sponde adriatiche, senza assolutizzazioni di sorta.

Quanto alla scuola, non si tratta semplicemente d'inserire qualche pagina in
più sull'Olocausto o sui fatti del 1943-45 al confine orientale, bensì di
ripensare radicalmente l'impostazione dei programmi di storia e dei relativi
strumenti didattici, dedicando maggiore attenzione alle dinamiche
sociologiche e alle componenti antropologiche, non solo ai fattori
istituzionali e conflittuali, in una moderna prospettiva di collaborazione
pluridisciplinare e di confronto con le esperienze degli altri paesi, in
vista dell'elaborazione d'una storia condivisa dell'Europa, fuori e oltre
gli stereotipi sulla colpa esclusiva della Germania, sui tedeschi, tutti
"volonterosi carnefici di Hitler", e sugli italiani, compattamente "brava
gente", che sappia fare in maniera consapevole e coraggiosa i conti con un
passato che ancora non passa e che pare non aver insegnato nulla, come
confermano i fatti degli ultimi anni, allorché la storia, lungi dal finire,
come in maniera fin troppo ottimistica qualcuno vaticinava al dissolversi
dell'Urss, ha preso una nuova via e un'improvvisa accelerazione, sulla
propria strada lasciando nuovi lutti e macerie.

 

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