LETTERE
Scrivo a proposito di un articolo apparso sul Corriere della Sera del 6.4.10, L’altra storia di Trieste: Tito contro gli anti-fascisti, di Paolo Mieli. «È possibile occuparsi di questi fatti remoti (1945) senza far propria in partenza né la vulgata comunista e slava, né quella di segno contrario?», è la domanda che si pone Mieli all’inizio dell’articolo. Qualche tempo fa in un dibattito su questi argomenti, lo scrittore Boris Pahor e Paolo Rumiz parlavano di asimmetria storica. Con questo concetto si riferivano alla tendenziosità che c’è in Italia di dare più importanza ad alcuni avvenimenti piuttosto che ad altri. Pratica di cui risente in particolar modo – poiché non riesce a farsi un’idea bilanciata della realtà – il cittadino medio, colui cioè che fa parte della «vulgata», come la chiama Mieli, ma non solo «slava», anche quella italiana, dato che in questo purtroppo siamo tutti uguali. D’accordissimo che sia utile «ricostruire tutte queste storie» (crimini di Tito, dei comunisti ecc.), un po’ meno sul fatto che il «rivedere queste storie» abbia come scopo «un giudizio ispirato all’amore per la verità» – come scrive Mieli. In un paese – l’Italia – dove, per fare un esempio, su centinaia di criminali di guerra non è stato processato nemmeno uno, dico uno, parlare in questo caso di «amore per la verità» è quantomeno ingenuo, oppure scandaloso. Potrebbe trattarsi più facilmente di qualcosa che potremmo chiamare «amor di patria», ma nei giorni nostri certe frasi non vanno più di moda, allora si preferisce usarne altre, che però traggono in inganno, soprattutto il cittadino medio, in quanto nascondono concetti diversi da quelli che si vuol far credere. Ma questa da noi è una prassi talmente consolidata che non ci si fa più caso. Viene quasi spontanea. Ne è sintomo l’inizio dell’articolo di Mieli: «alla fine della seconda guerra mondiale il confine orientale subì un tale sconvolgimento…», viene da chiedersi, e prima allora? E nel resto d’Italia, subito dopo la guerra? Non c’è stata forse una guerra civile? Ammettiamo pure che Mieli voglia attenersi all’argomento del libro dello storico Raoul Pupo di cui parla nell’articolo. In questo modo però non fa altro che accentuare l’asimmetria di cui sopra. Mieli rileva come lo storico, autore del libro, «dimostra» che le mire espansionistiche slave nascono già nel ’41. L’Italia nel momento in cui finì la prima guerra mondiale si trovava a combattere poco più in là del Piave, a guerra finita il confine raggiungeva Postumia (Postojna), 30 km all’interno dell’odierno territorio sloveno. La Iugoslavia alla fine della guerra aveva occupato/ (liberato) Trieste, che però ha dovuto in seguito lasciare all’Italia.
Infine stupisce – ma non troppo – che Mieli si trovi in piena sintonia con lo storico quando afferma che «è una fortuna che si senta oggi parlare un po’ meno di memorie condivise – strani oggetti (…) e un po’ più di rispetto per le memorie diverse…». Convinzioni che potrebbero essere di una certa originalità in un altro contesto, soprattutto se non fossero anacronistiche e in netta contraddizione con uno spirito europeista.
Adam Seli