Il libro
Trieste, storie di eroi nella città meticcia
Da Svevo a Slataper, da Stuparich a Michelstaedter nel nuovo libro Mughini racconta letterati e irredentisti
Mattia Feltri
Wilhelm Oberdank nacque naturalmente bastardo, naturalmente a Trieste. La madre era austriaca e il padre veneto non ne volle sapere di lui. Si tenne il cognome della madre ma si sentiva così italiano da ribattezzarsi Guglielmo Oberdan, il nome con il quale nel 1882 offrì al boia il collo di cospiratore. Non è un fatto episodico. Il poeta Virgilio Giotti, nato poco più di due anni dopo l’impiccagione di Oberdan, era per l’anagrafe uno Schönbeck e oltre alle generalità cambiò residenza: da Trieste se ne andò a Firenze per sfuggire alla leva austriaca. Il caso più celebre è quello di Ettore Schmitz, guarda un po’, nato nel 1861. Il suo babbo era tedesco, si chiamava Franz. Ettore non si accontentò di mutare il cognome in Svevo, che denunciava l’origine ma la denunciava in italiano: volle ribattezzarsi Italo, casomai restassero dubbi. Ne ha prodotta, di gente così, la città bastarda. Diciamolo meglio: la città meticcia. E Giampiero Mughini, che ne ha scritto un libro furioso e commosso appena uscito per Bompiani (In una città atta agli eroi e ai suicidi – Trieste e il caso Svevo, 160 pag.,15 euro), ha tirato fuori tutto il meticciato che si sente addosso: «nato in Sicilia da padre toscano», si legge nelle due righe di biografia della quarta di copertina. «Abitante a Roma, sempre retribuito dalle aziende polentone del Nord». È la storia di tutti noi e dei nostri padri, della grande rivoluzione italiana che non è stata fatta dalle camicie nere o rosse, ma da quei milioni di meridionali, soprattutto siciliani, che sono andati a lavorare e a mischiare la razza nelle città del Nord. Un sentimento del genere, così profondamente italiano, svampa da un libro che è mezzosangue in ogni pagina: un po’ critica letteraria, un po’ rivendicazione rabbiosa, un po’ compensazione per uomini che si chiamavano Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper, Carlo Michelstaedter.
Scipio Slataper, Carlo e Giani Stuparich, per dire, combatterono la Grande Guerra nell’esercito italiano, il che equivaleva, da triestini, alla diserzione da quello austro-ungarico. Carlo Stuparich si ritrovò accerchiato, nel 1916, e si sparò in testa piuttosto che arrendersi e venire giustiziato da criminale, alla Oberdan. Il fratello di Carlo, Giani, anche lui irredentista, anche lui soldato, venne ferito due volte, catturato, internato in cinque diversi campi di prigionia; riuscì a tornare a casa ma la medaglia d’oro al valor militare non gli servirà per schivare le leggi razziali. Perché era ebreo. E oltretutto era antifascista e aveva il demerito di esserlo stato tempestivamente. Finì a San Sabba e scampò Auschwitz. Fece parte del Comitato di liberazione nazionale. Non andò così bene a Slataper, che morì in battaglia nel 1915 e aveva giusto fatto in tempo a portare in Italia il culto per Erik Ibsen. E però, dice oggi Mughini, l’Unità d’Italia si è realizzata solamente nel 1918, quando le navi italiane «attraccarono sui dodici chilometri dei moli di Trieste».
Una città che poi sarebbe di nuovo caduta nell’ambiguità dolorosa che è la sua essenza: uscita nel 1945 da tre giornate di insurrezione contro i nazisti per transitare, fra il compiacimento delle solite élite culturali, nelle braccia dei comunisti titini. Lì attorno gira la storia di Porzus, delle foibe, dell’esodo istriano, e «nessun’altra tragedia è stata talmente dimenticata e rimossa per quasi mezzo secolo, almeno fino ai libri recenti di Enzo Bettiza e di Arrigo Petacco». Una tragedia sulla quale Giani Stuparich scrive: «Non chiedevamo altro se non di essere lasciati a condividere in pace la sorte della nostra madre comune, dell’Italia».
Rendere la memoria di quegli uomini è una riparazione urgente e santa, vista la natura dell’anniversario festeggiato con tanto impeto. Ed era giusto che sfociasse, per un bibliofilo come Mughini, in una preghiera laica offerta a Svevo, che di semplici indennizzi postumi ne ha avuti parecchi. Quando nel 1928 morì quasi settantenne in seguito a un incidente automobilistico e alle celeberrime tonnellate di sigarette accese, aveva appena intuito il successo che lo avrebbe travolto da postumo, e che lo aveva clamorosamente ignorato da vivo. Era troppo moderno, naturalmente perché era bastardo, naturalmente perché era triestino, per essere compreso da una critica e da un pubblico con la testa rivolta all’Ottocento. Alla fine il libro è «un’apologia del più straziante insuccesso letterario». E non per capriccio si consuma lì, a Trieste, nel frusciare di fantasmi.
Autore: Giampiero Mughini
Titolo: In una città atta agli eroi e ai suicidi – Trieste e il caso Svevo
Edizioni: Bompiani
Pagine: 160
Prezzo: 15 euro
(courtesy MLH)