MARCO COSLOVICH
L’INTERVENTO
Recentemente Olinto Mileta, responsabile del sito di discussione MLHistria, volto a presentare e a conservare la cultura italiana d’oltre il confine, mi ha chiesto di contribuire con una breve memoria sulla mia esperienza di “profugo” in prospettiva della pubblicazione di un volume dal titolo: Chiudere il cerchio.
Ho accettato perché lo spirito che accompagna l’iniziativa mi pare, se non m’inganno, di ampia veduta, vale a dire disponibile ad accogliere anche la memoria dei cosiddetti profughi di sinistra, antifascisti militanti, espressione diretta della lotta di liberazione partigiana. Vedremo come va a finire.
Ma il punto è un altro. Ripensando ai miei primi mesi di vita trascorsi al campo profughi a Padriciano, rivissuti attraverso la memoria dei miei genitori e delle mie sorelle più grandi, nonché alle mille traversie e incomprensioni che ci accompagnarono al nostro arrivo in Italia (ci fu negata la tanto discussa “qualifica di profughi”), mi è sorta una profonda rabbia. Ritenuti “rossi” dai democristiani di ferro che gestivano gli enti e le istituzioni di accoglienza e sostegno agli esodati; ritenuti fascisti dagli sloveni e dai comunisti in quanto fuggiaschi da Tito; ritenuti arci-comunisti dai fascisti irriducibili che sotto mentite spoglie proliferavano nella Trieste del dopoguerra e nel resto della nazione; eravamo, noi “profughi di sinistra”, veramente una minoranza umiliata e schiacciata.
Tutto ciò ha creato un solco morale e una diffidenza profonde che io stesso stento a superare. Mi chiedo, ad esempio, con quale faccia gli uomini di destra, possano farsi oggi, come allora, vindici dell’italianità dell’Istria e della Dalmazia che loro stessi hanno gettato in un vortice di violenza senza pari.
Mi chiedo come certuni uomini di sinistra possano ancora sottacere e minimizzare le gravi colpe delle violenze perpetrare contro gli italiani dei nostri confini, rei di essere italiani e affatto fascisti.
Perché? Perché è proprio sugli italiani antifascisti che si sono accaniti con lo scopo di delegittimare la resistenza italiana e poter rivendicare così solo loro l’eroica vittoria contro il nazismo e fascismo.
Mi chiedo altresì come i tiepidi antifascisti che tramavano nei salotti della borghesia, si siano poi arrogati il diritto di sancire i meriti e i demeriti nella lotta di liberazione.
Ecco che io, piccolo profugo di Padriciano, giro la testa di fronte al Museo del Centri Raccolta Profughi di Padriciano e al Civico Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata di Trieste. Trovo quei musei e quelle mostre sull’esodo, un’esibizione mesta e patetica delle nostre (e dico nostre!) povere e miserabili cose. Percepisco, in chi le organizza, un rancore appena assopito, pronto a scatenarsi in ogni occasione. Sento una certa violenza latente e vendicativa. E nello stesso tempo devo dire che questo, pur essendo io incerta e sicura vittima dell’esodo (abbiamo come famiglia perso tutto!), questo fastidio non sento nella nuda oggettività dei terribili musei dei Lager nazisti, ad Auschwitz in primis.
Perché? Mi chiedo perché? La radice sta forse nel fatto che il pericolo nazista lo sento come cosa ormai morta, in quella sua forma almeno. Nel dolore rivendicato dei miei compagni di sventura, o meglio, in chi lo organizza, il doppio pensiero non mi abbandona e sento vibrare l’intolleranza.
Riprendendo il titolo del libro di Mileta: il cerchio è veramente chiuso?
(courtesy MLH)