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Nazionalismo gemellare fra italiani e sloveni (Il Piccolo 15 gen)

LETTERE 

Taluni, tra italiani e sloveni, hanno bisogno di nazionalismo, di contrapposizione. Sotto questo punto di vista italiani e sloveni sono finalmente uniti, perfette e desiderate vittime gli uni degli altri. Molti malanni e guai si sopportano meglio se c’è un vicino da riaccusare. In questo senso la storia funziona a meraviglia ma la memoria diventa un fardello, una via crucis. Gli sloveni e gli italiani di confine sono divisi da molte cose. Basta interrogare il Novecento per rendersene conto. I momenti d’incontro sono rari, mentre prevalgono le diffidenze, i pregiudizi, se non l’aperta ostilità e conflitto. Soprattutto tra i due grandi conflitti e il lungo secondo dopoguerra, li ha visti spesso contrapposti, innegabilmente contrapposti. Non c’è chi non si sforzi, dall’una o dall’altra parte, di risalire all’origine di tutto questo. Le storiografie si sforzano d’individuare l’atto, l’azione, il sopruso, l’ingiustizia del passato dai quali il resto è rovinosamente precipitato. Si tratta, a ben guardare, della stessa logica che imperversa nelle baruffe condominiali. Ci troviamo così di fronte ad una lunga catena di cause ed effetti che imprigiona ogni crescita civile e culturale tra i contendenti. Uno di questi luoghi della storia, per gli sloveni, è l’incendio del Narodni Dom del 13 luglio 1920. Fu il prodotto di un attacco fascista (che causò due morti!), brutale e violento, in risposta all’uccisione di due militari italiani a Spalato (anche qui la causa e quindi l’effetto!). Scrive Boris Pahor, nella recente edizione «Piazza Oberdan»: «E così, alla fine della Grande guerra, quando Roma si impossessò di Trieste e del suo entroterra, fu proprio il Narodni Dom uno dei principali bersagli di un furore a stento trattenuto» (p. 19) Fu l’inizio di un «pogrom», lo definisce Pahor. La parola «pogrom» è impegnativa, ma è quella che si è usata in questo frangente. Uno di questi luoghi della storia, per gli italiani, è l’arrivo delle truppe iugoslave a Trieste il primo maggio 1945. Ebbero inizio così i famosi Quaranta giorni di occupazione titina nel corso dei quali i presunti liberatori si rivelarono spietati occupatori e persecutori anti italiani. In quel momento gli italiani di Trieste volevano dimenticare che c’era stata una guerra, che c’era stato l’attacco fascista alla Jugoslavia, l’alleanza fascista al nazismo, e vedevano nei partigiani iugoslavi, non a torto, dei sanguinari infoibatori. I «Quaranta giorni» sono l’emblema storico della ferocia comunista e della prevaricazione titina. Si è parlato di «genocidio» della nazione italiana. Anche questa parola è impegnativa, ma è quella che è stata usata. Sentirsi vittime, minacciati costantemente nella propria identità, chiudersi all’altro, erigere barriere, difendere l’appartenenza nazionale pur che sia. Il nazionalismo è ciò che solo riesce ad unire italiani e sloveni, indissolubilmente. Il nazionalismo ha un bisogno disperato dell’altro nazionalismo: i nazionalismi sono necessariamente gemellari.

Io, in verità, sono ottimista. Sono portato a credere che la gran maggioranza degli italiani e degli sloveni sono contenti di essere quello che sono in forza dell’incontro e dello scambio tra gruppi nazionali. Il che vuol dire anche che l’incontro può essere serrato e puntuto, ma senza i fantasmi del passato, senza «pogrom» e «genocidi», senza nazionalismo. Cosa aspettano gli storici e i testimoni a liberarci dal peso del passato?

Marco Coslovich

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