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Nella ”Panchina di pietra” il racconto dell’esodo (Il Piccolo 03 dic)

«La gente piangeva sulla nave e sulla panchina mentre il piroscafo, che sembrava non volesse staccarsi dalla riva, faceva gemere la sua sirena». Era il 1948 e Flora, che stava lasciando Arbe, era ancora piccola: aveva solo 8 anni. Ma «si guardava bene dal piangere… papà era morto e loro due erano rimaste sole, spogliate di ogni bene».

Flora, la protagonista di questo romanzo “La panchina di pietra” (De Ferrari) autobiografico nella sua prima parte, è di mia cugina Maria Rosaria Dominis; eppure l’ho conosciuta soltanto quest’estate e per un caso del destino. Talvolta il destino restituisce quello che ha tolto, perché non ha tolto solo le case, le terre, gli oggetti, ha smembrato l’identità di una famiglia, fatta di affetti e vita in comune.

Il libro viene presentato oggi nel Museo della civiltà istriana fiumana e dalmata di Trieste, in via Torino 8, alle 17.30.

Dell’esodo in famiglia non si era mai parlato. Solo del prima, di come eravamo. Dominis racconta il dopo. Con lo stesso distacco che si era creata da bambina per non perdere, mostrandosi in lacrime, l’unica cosa che poteva conservare: la dignità. E non è più la sua vita che si dipana, ma quella di una qualsiasi giovane esule in una patria, l’Italia che, come una matrigna, non l’abbraccia.

Maria Rosaria Dominis, che si firma solo con il cognome, è al suo secondo romanzo. Non indulge mai nel compianto né nell’odio per la sofferenza patita. Ma forse il suo segreto è proprio nell’aver deciso, mentre la nave salpava verso la vita, di sorridere sempre.

Elisabetta de Dominis

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