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Noi scampati alle Foibe, rimasti senza nulla (Il Giorno 19 gen)

GENNAIO 1956. La famiglia De Faveri carica i mobili su due camion e scappa da Capodistria verso l'Italia. Al confine i poliziotti jugoslavi sequestrano tutto. Anche il cane: «Prendevano tutto quello che potevano, hanno voluto anche il cappotto e il maglione che indossavano i miei genitori, e preso il nostro cane. Non siamo finiti nelle foibe ma ci avevano tolto tutto, non ci restava che fuggire in Italia», ricorda Fabio. Il primo campo profughi pochi chilometri oltre la frontiera, a Padriciano, un ex lager alle porte di Trieste. Baracche in legno, freddo terribile, un letto sopra l'altro. I Paulovich, in fuga da Fiume, vengono sistemati in un'ex caserma di Udine.

Sono centri di smistamento per migliaia di esuli dirottati ai quattro angoli della penisola. Alcuni prendono la strada per Monza dove era stato allestito un campo in Villa Reale, nell'ala dove oggi c'è la scuola d'arte. Una sistemazione provvisoria, un'emergenza durata un decennio. Un centinaio di famiglie in tutto. Un piccolo spaccio alimentare interno, le suore per aiutare i bambini. Chi può esce dal ghetto: «Ricordo che mia mamma per allontanarsi dal campo aveva bisogno di un permesso scritto», dice Adriano Paulovich. Poi l'opportunità di una casa vera in via Luca Della Robbia, era il 1967: «Ci eravamo trasferiti tutti lì, negli 80 appartamenti che lo Stato aveva costruito per noi, grazie a un terreno donato da una contessa di origine istriana, con la condizione che fossero realizzate abitazioni per gli esuli», aggiunge De Faveri, lieve accento istrano nelle parole. Sua mamma abita ancora lì, al civico 28.

M.D.

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