Ecco una sensibile riflessione di Annamaria Zennaro Marsi, esule da Cherso. Ci comunica la voglia interiore di non essere chiamata “profuga”.
È un’autoanalisi psicologica molto originale. I suoi sentimenti sono stati vissuti da molti Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia allontanati forzatamente, dopo la seconda guerra mondiale, dalle loro case, dalla terra dei loro avi, dal loro mare. L’Italia matrigna li ha accolti nei Campi profughi in condizioni inadeguate: eccessivo affollamento, nullo il riscaldamento, servizi igienici con acqua gelida, insufficienti e lontani. Al SILOS di Trieste anche senza finestre, luce ed aria, tra polvere e topi. Molti di loro cercarono di essere “trasparenti”, per non imbattersi nella disistima dei residenti. Era da vergognarsi dire che si viveva nelle baracche o in condizioni di tale degrado, tanto che alcuni adulti dicevano ai bambini: “No sta parlar fiuman, che i te riconosse”. Bisognava integrarsi, alla svelta. Ci fu l’esodo del silenzio, di fantasmi ignorati, su cui sarebbe interessante fare una approfondita ricerca sociale.
Quella di Annamaria Zennaro Marsi è una bella lezione per acquisire consapevolezza delle sofferenze, subite dopo l’abbandono della nativa e amata Cherso, che, nel presente, sta diventando sempre più apprezzata a livello europeo ed internazionale (a cura di Elio Varutti – ANVGD Udine).
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Immediatamente provai un profondo, turbamento, un’angoscia insanabile. Era ferragosto del 1948! Abbandonavo la mia isola per sempre.
Mi sentii improvvisamente estranea a me stessa, estranea agli altri, estranea alla terra dov’ero approdata, pur essendo della stessa lingua, religione, patria, tradizioni, abitudini: ero diventata una profuga italiana in Italia! La mia identità era stata rubata e trasfigurata.
Cosa significava? Cosa dovevo cambiare di me stessa? Quali nuovi atteggiamenti dovevo prendere? Quali obiettivi raggiungere?
Io non volevo essere una profuga! Non volevo essere diversa da quella che ero stata fino a quel momento: una bambina di 9 anni, italiana, come tutte le altre mie amichette e compagne di classe della scuola italiana di Cherso, con la stessa lingua e religione, tradizioni e cultura, con un’infanzia spensierata e gioiosa.
Al Silos [uno dei campi profughi di Trieste, NdR] ero una delle tante, dei tanti Italiani buttati fuori dalla propria terra con una pedata, forse da me immaginata e virtuale, ma estremamente dolorosa. Quell’appellativo mi irritava, mi avviliva e dava un’immagine di me che non mi apparteneva e che dentro di me rifiutavo tenacemente. Non volevo essere compatita, né commiserata!
Quando a scuola si presentava l’assistente o la segretaria, chiedendo: “Ci sono profughe in questa classe?” mi aumentava il battito cardiaco. Non volevo essere scoperta e il mio primo istinto era quello di stare in silenzio e nascondermi.
Immediatamente però qualche compagna rispondeva per me, additandomi. Mi emozionavo intensamente. Non volevo essere io, quella! Avevo sì vissuto tante esperienze negative che mi avevano lasciato tante cicatrici, forse mi aspettavo qualche consolazione, qualche risarcimento per le mie sofferenze, ma senza quel marchio inquietante del quale mi vergognavo.
Non volevo essere neanche una ex profuga!
Sono stata anni per metabolizzare quella parola e tornare ad avere stima e orgogliosa di com’ero nel mio presente e di come ero stata nel mio passato, sperando di non venir in alcun modo scoperta, né individuata nel futuro. Avevo imparato a nascondere tutte le tracce e a non rivelare la mia provenienza, altrimenti ricompariva il commento indesiderato. Nessuno doveva sapere che ero stata ricoverata al Silos assieme a tanti altri profughi (2.000?) e io ero una di quelli. Eppure, da adulta, incontrando una compagna di classe, la sentii esordire, facendomi gelare il sangue, con un:
“Mi ricordo di te, eri una profuga”. Ecco, era solo questo il mio connotato rimastole nella memoria. Non quello che occupavamo lo stesso banco, che ridevamo delle gaffe di qualche insegnante, che magari riuscivo bene nel disegno, che ci preparavamo assieme per la matura e da, brave ginnaste, vincevamo delle gare allo stadio Grezar di Trieste. Noo!
Ho inghiottito tanti rospi camuffati da principi azzurri e ho lottato per distruggerli. Ho incontrato tante persone sofferenti che hanno voluto, come me, nascondere ed evitare di pensare, poi ho deciso che ne sarei uscita, raccontando coraggiosamente quel tragico passato che tenevo ben celato e sono uscita allo scoperto, appena in tarda età, con “un’ingenuità talvolta disarmante” (come ebbe a rilevare un critico, dopo aver letto il mio libro), ricordando la mia vita in quel contenitore di anime disperate che era stato il SILOS di Trieste.
Ancora una volta ho percepito quella commiserazione, quella sorpresa, quel pietismo, pur anche sincero, che rivelava uno stravolgimento della mia personalità, di nuovo ho avuto la sensazione che quel termine profuga potesse falsare la mia immagine, pur da me, ormai superata e distaccata, ma, ritenendo di offrire una testimonianza utile e forse propedeutica a comprendere meglio la sofferenza dei profughi, l’ho steso, senza vergogna, anzi con fierezza ed orgoglio.
Chi ha provato a vivere una guerra e le sue conseguenze, sa che non esistono ragioni giustificabili, motivazioni legittime, scuse logiche o presunte tali per iniziarla, ma solo ambizioni distruttive che conducono alla stessa tragica conclusione: vittime con morti, feriti (anche nell’anima), orfani e… profughi. Sangue, paure, drammi, distruzioni e angosce, sono sempre le stesse, parlano la stessa lingua, non conoscono confini né territori diversi, perché la sofferenza è universale ed è parte integrante dell’umanità!
Annamaria Zennaro Marsi
Annamaria Zennaro Marsi, nata a Cherso nel 1939, sotto il Regno d’Italia, è esule a Trieste. Ha collaborato col periodico della Comunità Chersina (2004-2017). Ha pubblicato Vita a Palazzo Silos, edito da Bora.la di Trieste, nel 2021, che ha ricevuto la menzione d’onore al Premio letterario ‘Gen. Loris Tanzella’ 2022 di Verona. 3° premio al Concorso nazionale ANLA ‘La penna racconta’. Collabora con “El Cinciut”, pagina ironico-dialettale de «Il Piccolo» di Trieste. Dal 2019 collabora con i blog dell’ANVGD di Udine. Nel libro Vita a Palazzo Silos, descrive le sue vicissitudini nel Campo profughi del Silos a Trieste. Con la sua famiglia chersina è stata esule al Silos dal 1948 al 1955. Ricordiamo che l’isola di Cherso, nel 1936, contava 8.617 abitanti residenti, di cui 3.502 a Cherso. Dal 1991 l’Isola (Cres) è della Repubblica di Croazia.
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Fotografie e disegni della Collezione di Annamaria Zennaro Marsi. Per la collaborazione riservata, siamo riconoscenti a Claudio Ausilio, esule di Fiume a Montevarchi (AR) dell’ANVGD di Arezzo e al Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Grazie a Alessandra Casgnola, Web designer e componente del Consiglio Esecutivo dell’ANVGD di Udine.
Note – Autrice principale: Annamaria Zennaro Marsi. Progetto e attività di ricerca: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Annamaria Zennaro Marsi, Claudio Ausilio, Sergio Satti, Bruno Bonetti e i professori Daniela Conighi, Annalisa Vucusa, Stefano Meroi e Enrico Modotti. Ricerche presso l’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine. – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vicepresidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web: https://anvgdud.it/
Fonte: ANVGD Udine – 20/01/2024