Osimo, un trattato troppo frettoloso e rinunciatario

In questi giorni sono state ricordate con manifestazioni, eventi culturali ed istituzionali le giornate dal 3 al 6 novembre 1953, allorché l’opinione pubblica italiana (e non solo) rimase impressionata dalla rivolta di Trieste. 6 morti e decine di feriti vittime della polizia dell’amministrazione militare angloamericana della Zona A del mai costituito Territorio Libero di Trieste testimoniavano l’appartenenza nazionale di una città che il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 aveva lasciato in sospeso tra Italia e Jugoslavia.

Giustamente quei morti sono stati ricordati dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi come gli ultimi martiri del Risorgimento italiano: anche grazie al loro sacrificio ripresero le trattative diplomatiche internazionali per risolvere la questione di Trieste. Un anno dopo l’amministrazione italiana subentrava a quella alleata ed il capoluogo giuliano festeggiava in un tripudio di Tricolori l’arrivo delle truppe italiane e le solenni celebrazioni del 4 novembre. Sergio Romano ha scritto che questa è stata l’ultima pagina del Risorgimento.

Un’ultima pagina in cui era però passato sotto silenzio che la Zona B dell’ex TLT (da Capodistria al fiume Quieto) passava dall’amministrazione militare jugoslava a quella civile di Belgrado: de iure la sovranità apparteneva ancora formalmente all’Italia, de facto l’annessione alla Jugoslavia proseguiva. Così come in pochi si erano resi conto che alcune frazioni del Comune di Muggia che facevano parte della Zona A erano state assegnate dal Memorandum di Londra alla Jugoslavia che così acquisiva posizioni di controllo sul golfo di Trieste mentre si consumava un’altra frazione dell’Esodo che aveva fatto intraprendere la via dell’esilio al 90% della popolazione italiana autoctona dell’Istria, di Fiume e di Zara.

Questi dettagli passati sotto silenzio aprirono la strada ad una nuova fase storica, in cui il discorso patriottico andò via via sfumando, man mano che l’età portava alla scomparsa dei reduci della Grande Guerra, per i quali Trieste e le terre irredente erano un simbolo. Nuove problematiche interessavano la società italiana, passata dal boom economico agli anni della contestazione e del Sessantotto, che mandò definitivamente in soffitta il patriottismo. La Democrazia cristiana non era più il granitico partito anticomunista delle prime legislature, le aperture a sinistra erano sempre più ampie e nel centro-sinistra si guardava all’inclusione anche del Partito comunista italiano nei governi.

A livello internazionale la politica ondulatoria di Tito fra blocco occidentale e comunista passando per il movimento dei non allineati gli aveva creato più amicizie che disprezzo per il carattere totalitario della sua dittatura declinata secondo la via jugoslava al socialismo. Episodi come la primavera di Zagabria avevano tuttavia dimostrato che nella Jugoslavia titoista c’era un malcontento strisciante e fu soprattutto preoccupazione degli Stati Uniti puntellare quel regime che faceva da avamposto contro i paesi del Patto di Varsavia.

Pressioni americane, l’ammirazione per Tito in ampi settori della sinistra, la noncuranza per l’interesse nazionale, la velleità di attuare una Ostpolitik sul modello di quella avviata dalla Germania federale di Willy Brandt, il proposito di consolidare le attività economiche e finanziarie con la Jugoslavia, la disaffezione dell’opinione pubblica per le questioni patriottiche. In questa cornice si crearono i presupposti in base ai quali fu stipulato il 10 novembre 1975 il Trattato di Osimo con cui l’Italia rinunciò definitivamente alle sue legittime rivendicazioni nei confronti dell’Istria nordoccidentale in cambio di un progetto di Zona Industriale a cavallo del confine che mai si realizzò causa le proteste dei triestini (scesi in piazza assieme agli esuli che vedevano l’Italia abbandonare l’ultimo lembo d’Istria) e di un risarcimento per i beni abbandonati nella Zona B che la dissoluzione della Jugoslavia non consentì di onorare totalmente.

Meno di 5 anni dopo Tito morì e dopo altri 10 anni ebbe inizio l’implosione della Jugoslavia: non aveva tutti i torti chi invitava la diplomazia italiana a non aver fretta di concludere un trattato così rinunciatario con uno Stato che difficilmente sarebbe sopravvissuto al suo dispotico padre e padrone.

Lorenzo Salimbeni

Fonte: Entre Regionale per il PAtrimonio Culturale – Friuli Venezia Giulia
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