La “GIORNATA DEL RICORDO” che dal 2004 ricorda, il 10 febbraio, il sacrificio delle terre italiane della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia cedute alla Jugoslavia, quest’anno assume un significato particolare perché è appena trascorso – nel silenzio più totale dei media – il 40° anniversario del “TRATTATO DI OSIMO” ovvero l’abdicazione sciocca dei diritti italiani su una ulteriore parte di quelle terre, addirittura al di là di quello che eravamo tenuti ad osservare con il trattato di pace del 1947 che ci era stato imposto dagli Alleati come nazione sconfitta. 40 anni dopo quel trattato il bilancio è ancora più sconsolante perché – come prevedibile – prima la Jugoslavia e poi la Slovenia e la Croazia non hanno poi neppure mantenuto i pochi doveri residui verso le nostre comunità, con il risultato che le tracce italiane di una tradizione millenaria sono state letteralmente strappate da quelle terre, nel menefreghismo più generale. La firma del trattato ebbe luogo 40 anni or sono, precisamente il 10 novembre 1975, ad Osimo da parte del Ministro per gli Affari Esteri della Repubblica Italiana, Mariano Rumor, e del suo omologo jugoslavo Milos Minic, in un clima di frettolosa segretezza motivata da ragioni di opportunità che intendevano nascondere alla pubblica opinione un evento non certo accettabile sul piano giuridico e meno che mai su quello etico – politico. Con il trattato l’Italia decise di trasferire alla Jugoslavia la sovranità ufficiale anche sulla cosiddetta Zona “B” del Territorio Libero di Trieste: una realtà giuridica che, pur essendo prevista nel trattato di pace, non era mai stata formalizzata anche perchè nel 1975 l’Italia si trovava in una situazione di ben maggior peso politico, economico e diplomatico rispetto al ’47. Oltretutto oltre alla “zona B” vennero ceduti alla Jugoslavia anche nuovi territori con un’ulteriore modifica a favore della Jugoslavia che prevedeva il trasferimento alla Zona “B” di Albaro Vescovà, Crevatini ed altri paesi dell’Istria, sacrificando qualche altro migliaio di residenti e costringendoli a prendere le vie dell’esilio in aggiunta ai 350 mila che li avevano preceduti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia nel primo decennio post-bellico. Complessivamente, con il trattato di Osimo venne ceduta alla Repubblica federativa jugoslava tutta l’Istria nord-occidentale ad eccezione di Muggia, in aggiunta alla perdita molto più ampia del 1947 di Fiume, Zara e degli altri distretti istriani, italiani da sempre. Oggi, ad un quarantennio da Osimo, comprendiamo che anche questo fosse un prezzo da pagare dalla Democrazia Cristiana ai nuovi alleati della sinistra in un’Italia allara spiazzata dagli attentati e dalle Brigate Rosse con un governo debole e aperto al PCI. Stessa debolezza che portò l’Italia a perdere ulteriori diritti riconoscendo immediatamente la Slovenia e la Croazia neonate repubbliche dopo il collasso della Jugoslavia quando sarebbe stato un facile momento per richiamare questi paesi ai loro doversi verso l’Italia. Eppure i problemi del confine orientale, alcuni dei quali insoluti, non erano nel 1975 di scarsa consistenza: anzitutto il riconoscimento della verità storica, e poi la tutela dei monumenti e delle tombe italiane oltre confine, la sorte dei beni immobili già appartenenti agli esuli, gli indennizzi, il regime delle acque territoriali, l’insegnamento dell’italiano nelle scuole, gli accordi per la pesca in Adriatico e così via. Ma in quel momento politico la strategia della “solidarietà democratica” che aveva coinvolto il Partito Comunista nell’area di governo ebbe buon giuoco nell’incentivare e poi nell’accelerare al massimo le trattative che condussero ad Osimo: il 20 giugno Tito si fece premura di ricevere nella residenza istriana di Brioni il Segretario del PCI Enrico Berlinguer, tanto che più tardi fu possibile affermare, al di là della riservatezza assoluta cui venne improntata la visita, che erano stati costoro a rendere realmente possibile la stipula degli accordi, cui peraltro non fu estraneo l’intervento dei cosiddetti poteri forti ed in primo luogo anche dell’Avv. Gianni Agnelli, Presidente della Fiat, i cui interessi mondiali si estendevano ai mercati balcanici e che di lì a poco iniziò a costruire stabilimenti automobilistici in Jugoslavia. In parlamento si opposero solo i parlamentari del MSI-DN e vari dissidenti dal cosiddetto “arco costituzionale” tra cui alcuni democristiani quali Giuseppe Costamagna, Giacomo Bologna (istriano) e Giorgio Tombesi (triestino), il liberale Luigi Durand de la Penne (medaglia d’oro al valor militare) ed il socialdemocratico Fiorentino Sullo, e soprattutto, al momento del voto uscirono dall’aula parecchi senatori e deputati delle forze di governo che non avevano avuto il coraggio di uscire allo scoperto. A sinistra, in una posizione sostanzialmente isolata ma significativa, fu l’opposizione di Marco Pannella. Ma si doveva sacrificare la Zona “B” nell’ottica di una migliore “collaborazione” fra l’Italia e la Jugoslavia nell’ottica assurda che l’Italia – pur avendo aveva appena firmato il trattato di Helsinki sull’inviolabilità delle frontiere – cedeva di fatto la propria sovranità nazionale su di un lembo di terra italiana. La sola opposizione organica quanto isolata, come si accennava, fu quella del Movimento Sociale Italiano ma prevalsero le ragioni politiche come sarebbe accaduto in occasione dell’ingresso sloveno in Europa (2004) e poi di quello croato (2013). Come anch’io sottolineai nel 2004 intervenendo in aula nel dibattito a Montecitorio in dissenso rispetto al governo si perdeva l’ultima occasione per rinegoziare il trattato o almeno pretendere di farlo rispettare per quegli aspetti di tutela verso l’attuale, minoritaria comunità italiana che tuttora sopravvive soprattutto in Istria, a Fiume e in alcuni luoghi della Dalmazia. Purtroppo, ancora oggi – anzi, soprattutto oggi – ciò non avviene e l’italianità di quelle terre è volutamente calpestata, repressa e nascosta.
Marco Zacchera (http://www.marcozacchera.it/files/punto-569.pdf)