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Panorama Edit – 300407 – Caro compagno Tito

Canto del disincanto di Silvio Forza – Direttore dell' EDIT

 

In questi giorni (ore 15,05 del 4 maggio) ricorre l’anniversario della morte di Tito, il 27.esimo, per essere precisi. Non è dunque una data “tonda”, una di quelle che solitamente si celebrano in un modo o nell’altro. Tuttavia, ho deciso di prenderla da pretesto per proporre un punto di vista a proposito di una questione che non è ancora stata risolta né, probabilmente, potrà mai esserlo, né nella percezione generale dei popoli che componevano la Jugoslavia, né all’interno della nostra Comunità nazionale italiana.
 
La voglia di scrivere di Tito è dovuta al fatto che, anche recentemente, ho avuto modo sentire, pronunciate da nostri connazionali, alcune valutazioni su Tito che rasentavano l’apologia e che hanno rafforzato il mio personale stupore avvertito quasi contemporaneamente nella lettura del capitolo “Davanti alla tomba di Tito”, scritto da Predrag Matvejević e pubblicato da Garzanti, alla fine dell’anno scorso, nello stimolante libro “Mondo ex e tempo del dopo”.
 
Un libro in cui, parlando di identità, nazioni e ideologie, Matvejević vede nella condizione, attualmente molto diffusa, di ex (ex comunismo, ex Jugoslavia, ex Cecoslovacchia, ex blocco sovietico, ma anche ex Sessantottino, ex Democristiano, ex colonialista, ex stalinista) un marchio che rimanda ad un carattere ambiguo unito ad un sentimento di disagio, quasi di colpa, poiché “ex non si nasce, lo si diventa”.

Ma torniamo a Tito. Matvejević non era mai stato a Kumrovec (dove di Tito c’è la casa natale) né aveva visitato la Casa dei Fiori nel rione belgradese di Dedinje dove l’ex maresciallo jugoslavo è stato sepolto dopo un funerale a cui hanno partecipato oltre 100 delegazioni di stato. Solo nel 2004, con un gruppo di suoi concittadini di Mostar, si trova per la prima volta “davanti alla tomba di Tito”. Matvejević non è, anche per chi lo contesta, una personaggio dogmatico e facile al fanatismo gratuito. Non è, insomma, uno che esprime giudizi di comodo e opportunistici: infatti, a Tito negli anni Settanta aveva anche scritto una lettera in cui lo invitava a rinunciare alla carica di “presidente a vita”, ma era stato un tentativo caduto nel vuoto poiché rivolto ad una persona che si autoalimentava dal culto della personalità.
 
Eppure, nel capitolo del suo ultimo libro, nonostante la lucida analisi di quelli che erano stati i lati positivi e negativi “della personalità e dell’opera” di Tito (che “ha governato troppo a lungo per non errare”), si avvertono un “sentire” e un giudizio per interposta persona (la citazione di quanto pronunciato dagli amici di Mostar a Dedinje) per i quali l’epoca di Tito sarebbe stata quella di “un’altra vita, migliore, irripetibile”. Ed è una convinzione molto palpabile anche in Istria e nel Quarnero.

Ora io credo che i giudizi fondati, magari ingenuamente e inconsciamente, sull’ottica della rassegnazione del tipo alla meno peggio siano concettualmente e strutturalmente sbagliati e fuorvianti. È vero che nella Jugoslavia comunista si stava meno peggio che nella Russia stalinista o nella Romania di Ceaucescu, ma ciò non basta a salvare un sistema che comunque calpestava i diritti umani e in cui gli astucci scolastici erano tutti di una marca sola e tutti troppo costosi. E poi non si capisce perché la nostra qualità della vita debba essere misurata rispetto a paesi in cui nei negozi di ferramenta bisogna chiedere “avete un cacciavite?” piuttosto che con altri in cui, quando si va dal ferramenta, basta dire “mi dia quel cacciavite”.

Moralmente illegittimi sono anche i giudizi fondati sulla visione di una realtà parziale: è vero che in Jugoslavia si trascorrevano settimane bianche quasi gratis grazie ai sindacati, ma è vero anche che i soldi che il sistema jugoslavo spendeva non erano il frutto del lavoro jugoslavo in cui, come ben si sa, nessuno poteva essere pagato così poco quanto poco poteva (e preferiva) lavorare. Nostalgie del tipo “come si stava bene allora” nascono sostanzialmente da punti di vista molto egoistici, in cui la memoria diventa ottimistica in quanto episodica e selettiva. Amo ricordare il giorno in cui segnai una rete decisiva al novantesimo, rimuovo quella domenica quando il mio autogol costò la sconfitta alla mia squadra.

Ma il fatto fondamentale è un altro, ed è intrinseco alla “natura” dell’ambito stesso in cui si muoveva Tito: Josip Broz stava a capo di un paese in cui tutto era permeato dal comunismo, non teorico (quello nobile) bensì da quello applicato (quello volgare, che stritolava il libero pensiero e uniformava verso il basso il popolo per differenziare con impronta molto borghese i comunisti potenti), era un paese in cui vigeva il monopartitismo dogmatico e in cui la dialettica democratica non era consentita, uno stato in cui le libertà di opinione, di parola e di culto era negate e criminalizzate, in cui c’erano i lager per la repressione politica (Goli Otok), in cui per i nemici del sistema c’era la minaccia della pena di morte, in cui il modello mediatico (ma anche scolastico) fondamentale era il lavaggio del cervello, in cui si trasmetteva un’immagine di falso benessere (di livello infimo, se pensiamo con quale intensità tutta la Jugoslavia correva a Trieste a comprarsi le calze nylon) e in cui trionfava il culto della personalità.
 
Un regime in cui, anche all’interno della CNI, tutto doveva essere benedetto da quel partito che vedeva nei mediocri e negli opportunisti i suoi adepti migliori. Dunque, è la stessa storia a sentenziare che un regime del genere si deve ripudiare poiché è stato un modello sociale negativo: di conseguenza, chi stava a capo di quel regime e di quello stato non può essere risparmiato dallo stesso giudizio.

Tito, nonostante la sua condotta non certamente cristallina precedente la conquista prebellica del vertice del Partito comunista jugoslavo, ha certamente un grande, e questo sì – indelebile, merito: quello di aver guidato la resistenza antinazista e antifascista e di aver dunque posto un importante argine all’avanzata del “male assoluto”. Una grande impresa che tuttavia si svuota di senso e significato se poi è stato lo stesso Tito a passare dall’altra parte della barricata riproponendo a casa propria, seppur sotto altre forme, un regime sostanzialmente fondato sul male e mascherato da modello di virtù politica.
E non c’è dubbio che il comunismo, anche quello un po’ più blando ma comunque impietoso di matrice jugoslava, sia stato un male.
 
Per essere coerente e, dunque positivo, dopo i fasti della rivoluzione e le tremende deviazioni totalitarie (titolitarie?) della prassi quotidiana, Tito avrebbe dovuto opporsi oppure fare il dissidente rispetto alla propria stessa creatura. Cosa che non è avvenuta ma anzi, Josip Broz non aveva nulla in contrario che il popolo gli cantasse l’umiliante (per lui e per il popolo) “compagno Tito, violetta azzurra”.
Qualcuno potrà obiettare che solo questo era il modo per disciplinare i bollenti spiriti dei vari nazionalismi separatisti interjugoslavi: ne è valsa la pena?
 
Ed era moralmente, civilmente, democraticamente, giusto ricorrere alla coercizione e alla propaganda intimidatoria per poter dire che quello di Tito “era il migliore dei mondi possibili”?
 
Un mondo che tuttavia non aveva fatto piazza pulita, come nelle intenzioni, della disuguaglianza sociale, in cui, sostanzialmente, chi era furbo aveva i soldi e che era onesto aveva poco o niente.
 
A questo proposito è illuminante quanto già trent’anni fa osservava Osvaldo Ramous il quale si chiedeva come fosse possibile che in un paese in cui tutti dovevano vivere, per stessa logica del sistema, solo del proprio lavoro e dunque solo del proprio stipendio, esistessero tante differenze sociali, con alcuni che raggiungevano le “stelle” e altri che dovevano accontentasi delle “stalle”.

Da un punto di vista croato e sloveno un grande merito di Tito è stato quello di aver assorbito all’interno dei propri confini l’Istria. È un punto di vista comprensibile e legittimo, ma non certamente condivisibile dagli Italiani di queste terre.
 
Lo osservava sempre lo stesso Ramous per il quale era semplicemente immorale chiedere agli italiani di provare il loro antifascismo e la loro onestà con la deliberata e declamata rinuncia alla propria nazione.
 
Ma questa è una storia vecchia come le foibe e l’esodo e che non dovrebbe essere rispolverata oggi, o almeno no in sede di agire politico, quando siamo convinti che i veri valori siano la convivenza e l’europeismo: ma è una storia che non va dimenticata dagli Italiani dell’Istria e del Quarnero quando si trovano nella condizione di dover esprimere un giudizio su Tito.
Quello per il quale si organizzavano i saggi ginnici. Come oggi avviene in Corea del Nord.

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