di FULVIO TOFFOLI
È uno dei luoghi più famosi e più misteriosi di Roma. I pullman che salgono sul colle Aventino vi scaricano puntualmente frotte di turisti che si accalcano davanti a un buco nel portale d’accesso al giardino monastico per vedere l’inquadratura perfetta della cupola di San Pietro. Pochissimi però possono dire di aver varcato quella soglia e aver visitato la chiesa, perché questa, come l’intero complesso, appartiene al Sovrano Ordine di Malta, al quale pertanto bisogna rivolgersi per il permesso. E ne varrebbe assolutamente la pena perché si tratta di un autentico capolavoro dalla storia più che millenaria, iniziata prima dell’anno Mille con Oddone di Cluny. Storia che viene narrata in maniera documentatissima e avvincente da Pierluigi Panza nel libro ”La croce e la sfinge” (Bompiani, pagg. 220, euro 18,00), finalista al Supercampiello che viene assegnato sabato 5 settembre a Venezia, e che si intreccia con quella del suo geniale costruttore, Giovan Battista Piranesi.
Realizzata in soli due anni, dal 1764 al 66, su incarico del cardinal Rezzonico, la Chiesa di Santa Maria del Priorato è l’unica opera architettonica compiuta dell’artista il cui sogno, fin da ragazzo, era di uguagliare il Borromini. «La figura di Piranesi mi ha affascinato perché è stato un grande visionario – spiega Panza, – un eretico della storia dell’arte. Proveniva da una famiglia povera, originaria dell’Istria, da cui il nome, il padre era uno scarpellino, ed è riuscito ad affermarsi grazie ai suoi meriti fino ad ottenere dal papa Clemente XIII il titolo di cavaliere».
Il sottotitolo del libro è ”vita scellerata di Giovan Battista Piranesi”. A quali episodi si riferisce?
«Zuanne, così veniva chiamato a Venezia dove nacque, aveva un’indole collerica che manifestò sin da giovane. Fu a Roma però, dove si trasferì a vent’anni, che si guadagnò la fama di scellerato. Più che a singoli episodi, che comunque ci furono, come l’aggressione al Vasi, suo maestro d’incisione, al pittore Zucchi e al medico accusato di non aver fatto il possibile per salvargli la figlia, episodi per i quali fu anche condannato ad alcuni giorni di arresti domiciliari, fu la sua ambizione a generare questa fama. Non gli si perdonava l’individualismo e l’anticonformismo che aveva dimostrato sfidando la cultura accademica, illuministica, del suo tempo che privilegiava la ragione rispetto all’emozione e alla fantasia».
La fama di Piranesi è legata soprattutto alle incisioni delle ”Carceri”. Come è nata quest’idea?
«Sono opere che appartengono ai primi anni romani e sono certamente ispirate da una visita del Piranesi al carcere Mamertino e alla vista dei tanti criminali e briganti torturati ed esposti alla pubblica gogna. Quindi certamente una denuncia delle atrocità dell’epoca, ma anche bizzarrie e capricci della mente scellerata di un artista che si divertiva a disegnare scenografie metafisiche con prospettive falsate, con scale che non portavano a nulla e passerelle sospese nel vuoto».
Oltre che incisore e architetto, Piranesi esercitò mille altri mestieri, fu scenografo, antiquario, archeologo. Quel è il ruolo che ha rivestito meglio?
«Fu costretto per necessità a cambiar pelle così tante volte, e direi che il suo fascino maggiore sta proprio in questa complessità, nell’essere stato sempre sfuggente. Lo definirei il Mozart del disegno. A Mozart infatti si può rapportare anche la passione per i simboli massonici ed esoterici, di cui è piena la Chiesa di Santa Maria del Priorato, e come Mozart con Salieri, anche Piranesi ebbe un antagonista nella figura del Winckelmann: questi sosteneva la supremazia dell’arte greca, Piranesi quella romana e orientale».
”La croce e la sfinge” è uno strano oggetto, un po’ saggio, un po’ romanzo. Lei come lo definirebbe?
«Ho voluto evitare da un lato il taglio filologico accademico e dall’altro quello troppo romanzato, cercando di trasmettere la passione della storia dell’arte attraverso il racconto della vita dell’artista».
Panza, lei si occupa di Beni culturali, è docente universitario e giornalista al ”Corriere della Sera”. Come si riesce a coinvolgere il pubblico con la cultura?
«Dando all’esperienza artistica la funzione di appassionare e commuovere. Quante volte sento dire che bisogna andare preparati all’opera o a visitare un museo, ma non è affatto così. L’arte ha in sé la forza di comunicare».