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Paolo Bernobini, un istriano tra gli intellettuali italiani (Rinascita 09 mar)

di Gianna Duda Marinelli

Si stanno festeggiando i 150 anni dalla nascita dello Stato Unitario Italiano, allora, nel 1861 l’Unità di quell’Italia che esisteva da ben oltre 2000 anni doveva ancora compiersi. Di questa Entità fa parte la X regio Venetia et Histria anche se, per motivi estranei alla volontà della sua popolazione, è stata talvolta merce di scambio tal altra regalata a chicchessia su di un piatto d’oro. Per fortuna, il profilo geografico dell’Italia non può essere discusso né modificato e potrà essere chiamato a testimoniare in qualsiasi momento fino a quando esisterà la Terra. L’Età dei Comuni, dei piccoli Regni e dei Ducati sono parte dell’evolversi della nostra Storia, purtroppo in essa molti estranei hanno voluto metterci “le zampe rapaci”. Uniti dalla lingua, dai coloratissimi scampoli dei nostri dialetti, dalle Arti, dalla naturale creatività, dall’originalità dell’individuo, questi sono gli ingredienti che fanno di noi un popolo unico.

Il 17 dicembre del 2010 sono trascorsi quarant’anni dalla scomparsa del poeta e giornalista P. Bernobini (Parenzo d’Istria – Trieste), vissuto a Milano, Roma, Parigi, Londra, per il suo bisogno di spaziare è stato un cittadino del mondo. A quarantatre anni il cerchio della sua vita si era già chiuso. Coloro che hanno cercato di tracciare il profilo di questo sensibile intellettuale Giuliano hanno fallito, proprio come la mano non riesce trattenere la sabbia così lui ha permesso di cogliere del “suo” soltanto alcuni granelli. E. Montale nell’articolo “La breve stagione di un poeta” apparso sul “Corriere della sera” del 22 dicembre 1970, aveva scritto: “Venti righe inesplicabilmente troppe per uno spirito folletto che attraversò la vita senza la pretesa di farsi notare”… ”Nella folla di anonimi che ho conosciuto, Bernobini spicca come un essere naturaliter originale: era lui, toccato dalla grazia, inconfondibile” ed ancora “Bernobini si era formato a Trieste e di questa città era un figlio estravagante, del tutto diverso dei suoi predecessori”. Non molto diversa da lui la sorella che ne ha custodito il pensiero e la memoria in una sfera impenetrabile, due folletti figli della “bora”. Quando nel Convegno “Istria 2000” un relatore aveva osato comprenderlo tra “gli scrittori dell’Esodo melanconici e risentiti” il suo nume tutelare aveva scritto: “Spero che cali di nuovo il silenzio su Paolo Bernobini: di sciocchezze ne ho sentite troppe“.

Percorrendo il tempo a ritroso, E. Montale aveva notato Bernobini nel 1953 quando a Milano aveva meritato il premio San Babila per i suoi versi raccolti in un volumetto intitolato “Canzoniere perduto” (1948-1949). Lo stesso premio era stato dato due anni prima a S. Quasimodo.

Durante un soggiorno nel capoluogo Giuliano, Montale lo aveva rincontrato assieme ad altri intellettuali, dopo la visita il 17 dicembre 1953 aveva pubblicato su “Il Corriere della Sera” l’articolo “Tre stellette per Trieste nella guida dell’Italia intellettuale” sottotitolandolo “Isolata dalla cultura nazionale, la città ha reagito creando una sua letteratura originalmente italiana contrassegnata da figure di primo piano”. “Città di traffici, città di confine, dove tutti gli uomini colti, fino a vent’anni fa erano almeno bilingui (italiano e tedesco)”. Dopo un breve accenno alla passeggiata dell’Acquedotto descritta da Svevo in “Senilità” continuava: “Due giovani poeti quasi inediti potrebbero guidarvi, anch’essi senza telefono e stato civile: lo scarruffato e angelico Paolo Bernobini, amico epistolare di Gottfried Benn e di altri poeti stranieri, e il pacato ed arguto Armando Stefani”.

Poeta e giornalista, per lui era un “mestiere”. Alle sue poesie, articoli, critiche ed interviste, trascorsi 40 anni si potrebbero aggiungere gli agili versi satirici, in dialetto triestino – parenzano che forse ha voluto imbibire di espressioni fin troppo colorite e scabrose perché “si ricordino”. Sono racconti in versi in cui si riconoscono i protagonisti della vita Triestina di quelli anni, descrive i loro caratteri con i pochi pregi ed i molti difetti che li accompagnano. Era un suo uso allegare queste liriche scapigliate, in fondo nostalgiche, alle lettere che inviava alla famiglia. Versi che ora che è di moda il dibattito, sempre cattivo ed i più sembrano votati all’immusonimento totale, potrebbero sortire dal privato per renderli pubblici allo scopo di strappare un sorriso a quelli che ancora sanno in che cosa consisteva lo “spirito” di questa città.

Era ovvio che il Bernobini “scomodo” abbia avuto spesso rapporti conflittuali con più di un direttore di quotidiano così, “con un piede in Rai”, per vivere ha collaborato anche con riviste osé come “Playmen”. Riviste che hanno saputo dare spazio a questo giovane intellettuale che ha scritto degli articoli imbevuti di cultura che Montale ha definito “scampoli di prosa”. Un “bieco” (mi si permetta questa espressione dialettale) o uno scampolo, un esempio: “Amo ancora il crepuscolo che le ha dato Svevo, il primo sole di mezzogiorno di Buba, il tranquillo timido, intimo suo tempo meridiano che ha Giotti, le sue pure espressioni di arte. E di conseguenza detesto, tutti i facili discorsi che su di essa oggi fa la gente che non la conosce, l’epica sentimentale politica che un poco inganna la verità dei suoi figli morti e un poco dimentica la vita che ancora vivono i suoi figli vivi”.

La satira di P. Bernobini è una raccolta dei più strampalati colloqui con Guido Sambo alias Yambo, Ambo, sono stati il pretesto per usare modi di dire triestini ed istriani, allora d’uso comune ed ora gustosa testimonianza di un lessico perduto. Il protagonista é “schiavo de la sua casta, viveur della Trieste di notte” assiduo frequentatore “avventor de bettole”. Yambo è il suo bersaglio, sia per il linguaggio che per il suo mega progetto di pubblicare un “Dizionario dei poeti e scrittori giuliani“. Le figure del pittore Righi (Ighi), dello scrittore Dardi (Dadi), affiancati nelle liriche dalla danarosa comparsa, la pittrice Ossi Zinner (Osi) amica di Righi. L’azione si svolge a Trieste tra Viale XX Settembre, Barriera, Piazza della Borsa e Piazza Venezia. Nei pressi di quest’ultima, in via Del lazzaretto vecchio, “La vecia batana”, frequentatissima trattoria, prossima alle abitazioni di Ighi e Dadi. Un filo invisibile lega i personaggi ed i fatti di Trieste con quelli dell’Istria. Il gestore della “Vecia batana” era Guerriero (Guerruccio, Ferruccio) Spizzamiglio profugo da Castelvenere (el Re de Castelvenere) con la bella moglie Concetta Drusco da Triban ai fornelli, friggeva e cucinava fino ad ammalarsi mentre i loro figli, di giorno studenti, di sera facevano i camerieri. Una serata alla “Vecia batana” equivaleva a mettere all’aria per alcuni giorni abiti, cappotti e pellicce, l’odore di fritto, di buon fritto, impregnava dalla testa ai piedi i frequentatori. Tutti conoscevano la “profumata” caratteristica ma nessuno osava disertare quel locale così conviviale.

Volutamente ha usato la sovrapposizione delle consonanti la f = s, z; v = r, x, le parole storpiate o mancanti di qualche parte hanno creato un linguaggio particolare .

Oltre G. Sambo – Yambo ha chiamato Yambo anche una macchina fantastica spagnola “el cochecito con motor y a manivelas” di cui l’autore aveva inviato un depliant alla famiglia. Yambo era anche lo pseudonimo del giornalista e scrittore E. Novelli (Pisa 1879 – Firenze 1945) che nel 1902 aveva scritto ed illustrato “Ciuffettino” gustoso romanzo, gradita lettura dei ragazzi di quegli anni. Forse Yambo è stato solo un gioco in cui Bernobini ha immerso se ed i lettori. Alcuni versi da “In sula cima” sono un assaggio delle sue rime in dialetto: Po xe vignù el passato Regime./Son esule, esule istriano,/ quel si, ghe vol./Ma vado d’accordo con tutti/rossi e neri/onesti e farabuti./Solo no coi rossi de cavei./No li posso veder, noi me piase. No!/

No i me piase./Atacabrighe, crudeli,/avidi, pai schei;/superbi, sempi e gretti./In primo luogo nemici dei poeti/La guardi: mi son bon./Co fazevo el ginasio/nelle ore de latin e de grego/iutavo el bidelo in porton/a scovar, a lavar le piere./Al professor Scarizza/ghe grattavo in schena/col gaveva la spiza./Del sensuale professor Rutteri/assecondavo i bassi desideri./Al professor Marussi/ghe pascolavo i musi./Al professor Szombathely/con povero beco Bunsen/ ghe brusavo i pei del cul / credendo che fusi cavei/al professor Sabatini/ghe spudavo nel piato i spini/de pese. El se ga intaià./

Al professor Zanéi/ghe mandavo per posta usei/De legno che ghe somigliava./E lui invece el se rabiava./Il professor Pasini/ghe taiavo le giachette/per farghe capotini/slinghe, braghe e berette/
ai muli Sangiacomini/che me dava balini/rubadi in Arsenal./Al professor Nimìra/no ghe mai sbagliavo la mira/co la mia catapulta lanciastronzi./Po se imbriagavimo insieme/ coi fiaschi de Poggibonsi./Quei iera tempi./I me ga da tutti pessimo./Non so perché./Non me go mai arabiado./

Sempre beneficado/Go i miei amici./In piazza Barriera/il poeta Yambo/el ga rubà un bisato/
a una baba vecia/e po i se ga meso a corer/a corer, a corer/Sior giudice Pizzul/Signori avvocati/

Cancelliere di ferro Spagnul/Giuro sulla Bibbia/dei fratelli Fabbri./Che non xe niente vero.

Anche le frasi tratte da una lettera del 24 maggio 1961 inviata da Milano alla sorella sono scampoli della sua vita quotidiana: “Oggi devo leggere due libri, preparare una rubrica per il settimanale a fumetti; studiare quanto più posso da un voluminoso saggio di Lucien Goldmann su Pascal e Racine”. Il direttore del Gazzettino mi ha scritto invitandomi a collaborare alla sua terza pagina. Mi pare che Pascal e Racin siano i migliori soggetti per questo inizio. Solo che Godmann é uno studioso marxista, e l’aggettivo, in un giornale come il Gazzettino, rischia di fare un’impressione tutt’altro che favorevole. Il problema é dunque molteplice: presentare due classici tanto cristiani e dire che la critica marxista di un professore universitario francese ha illuminato di una nuova luce la loro opera. Non impegnare né me né il giornale in un giudizio favorevole. Senza tuttavia assumere il punto di vista contrario, se esiste, perché allora dovrei sostenere una tesi che non sento oppure assumere la toga di Carnelutti (noto avvocato) e difendere la “spiritualità” borghese di chi in Pascal e Racine proietta la propria pretesa sublimità”.

Induce alla meditazione l’articolo di 6 pagine “Sopra il binario morto della storia” pubblicato nel 1970 su “Playmen” in cui ha tracciato i profili di: Mao Tze Tung, i due Kennedy, Johnson, Mussolini, Castro, Stalin che ha voluto iniziare dalla conclusione usando dei caratteri in grassetto: “Quando la Luna era una strega o forse una cacciatrice, l’uomo credette che il Tempo, percorso un lungo giro, si sarebbe ripetuto. Poi l’anello si infranse, divenne una galleria di busti di buoni o cattivi tiranni, infine una lunga linea che fra discese e salite ci avrebbe portati al Terminal della Utopia. Ma alle soglie degli anni 70 sorge un dubbio: se avessimo sbagliato treno?”

Su “Il Piccolo” nel 2003 nella Rubrica “Trieste d’autore” Nico Naldini in “Le cento anime di una città che vive nei libri. Un destino cosmopolita che ha trovato eco nelle pagine di Saba, Joyce” afferma: “… Ma Trieste è una città “strana” e, creato un modello, intende ricrearlo per riconfermare le sue solide tradizioni. Ed ecco un nuovo Bobi Bazlen (si parva licet…) nella figura di Paolo Bernobini, dalla testa rossa e riccioli caprigni. L’intellettuale più à la page che ho conosciuto”.

Il si parva licet sminuiva Bernobini ormai deceduto da 33 anni, ma contraddicendosi Naldini non mancava di citarlo in ogni sua conferenza infatti, questo “folletto” lo aveva colpito tanto profondamente che nel 2005, nel suo volumetto “Come ci si difende dai ricordi” ha scritto: “La via era profumata di erbe medicinali, a pochi passi dal viale Venti Settembre, dove presi l’abitudine di passeggiare in attesa che Giotti uscisse dall’ufficio dove lavorava, presso l’ospedale civile. Ci si incontrava di solito in tre con il poeta Paolo Bernobini. Paolo, che aveva qualche anno più di me, fin dal mattino si aggirava per le strade del centro con un fascio di libri sotto il braccio”.

Ed ancora nella rubrica “Happening” Bernobini intitola un articolo per denunciare l’aumento delle tasse e la diminuzione dei contributi statali “Teatro – Solo il corno di caccia pagò le tasse” che inizia: “L’attuale governo ha inaugurato la stagione con una serie di provvedimenti fiscali, tra cui l’inasprimento delle tasse sugli spettacoli… E le mosche bianche che coltivano un violon d’ingres in arte o in letteratura, che il cielo dia loro tutti i successi politici a cui ambiscono purché non trionfino i loro ideali di bellezza. Un mucchio di finti talenti ha infilato il tubo di scarico della televisione, congegno infallibile nel far splendere e incenerire ogni ciabatta, ma di questa naturale depurazione il teatro non sembra essersi avvantaggiato, forse anche perché il numero degli audaci idioti che infilano questo sentiero di guerra cresce in modo pauroso e l’esibizionismo della ribalta è un’esca irresistibile. Della critica non si è sentita mai la necessità… La stagione 70-71 sarà ricca di novità”.

Bernobini non vi assisterà perché non sarà più di questo mondo dal 17 dicembre 1970.

Anche se c’è tanto ma proprio ancora tanto da dire bisogna concludere. La scelta di una lirica tratta dal “Canzoniere perduto” (Premio San Babila 1953), sembra adatta “In memoriam” dedicata all’amico Parenzano Tullio Sbisà, che presago di quanto sarebbe successo all’Istria si era suicidato nel gennaio 1945 (la perdita della penisoletta e di Parenzo avverrà ufficialmente il 10 febbraio 1947). Il dolore che aveva indotto al suicidio l’amico Tullio ben si affianca alla struggente ed insanabile impotenza di Bernobini innanzi alla tragedia: “Tardava l’aprile, per noi, lo rammenti?/e intorno non c’era più sole./Tacevi, forse schiarita/la fronte dall’illusione./Immemore a un altro paese,/strano per un fanciullo,/movevi il passo nell’ansia./Alle spalle tutto il tuo mare/esitava tra il viola e l’argento./ Un cespo di bianche rose/t’accoglie,/al limine di un’altra spera./ Tu, che non sogni sapevi./ Lascia quaggiù alle tempie/nostre il martellio,/al gemito nostro/un’eco fredda di rocce./Il mare tace stasera…./Un elego appena chi pieghi/vi tesse il canto per te,/ma ormai non sia preghiera:/tu sai è per noi/la tua morte intera./Ne mentiremo la sorte./ Un vago mare, un pianeta/triste di tarde stelle,/la fiaba finisce/e tu sei/la vela che non ritorna./

 

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