LETTERE
Leggo soltanto ora quanto apparso su «Il Piccolo» (12 marzo scorso) a firma di Fabio Mosca, stile da sentenza inappellabile, ma con l’aggravante della inattendibilità: l’autore si riferisce, infatti, alla prima edizione del mio «Albo d’Oro» (1989) e non alla seconda (1994), così che, a esempio, la citata pagina 16 è bianca. Un errore che sconcerta anche il disattento lettore, primo perché le due pagine iniziali sono diventate cinque e dedicate non soltanto alle foibe, ma anche ai vari eccidi e ai campi di concentramento.
L’imprecisione sarebbe il mio stile? Non di questa opinione erano i professori Gioacchino Volpe e Renzo De Felice, dei quali mi vanto d’essere stato collaboratore. Ma come preoccuparsi di quanto va scrivendo Mosca, tirando fuori il Velebit e gli ebrei perseguitati, ma dimenticando, a esempio, il campo di Arbe dove trovarono rifugio centinaia di perseguitati, posti sotto la protezione medica dell’ospedale militare dell’Armata, in Abbazia, come è giusto che debba essere e come fu anche per certi campi attorno a Sansepolcro d’Arezzo dai quali gli eventuali ammalati passavano nei più vicini ospedali.
Vogliamo la verità storica? Semplice: non si dimentichino le responsabilità dell’imperatore Francesco Giuseppe e le documentate proteste di alcuni illustri delegati istriani contro la slavizzazione dei cognomi messa in atto dai preti slavi tenitori dei registri delle nascite, matrimoni e morti. Ma se si vuole fare il pieno anche con il cosiddetto fascismo di frontiera, allora non si dimentichi l’attività della Orjuna, né la morte di Giovanni Pippan e Bruno Bernetich, deceduti rispettivamente a Chicago e nel Kazakistan.
Ma se si vuole una polemica sterile, buttando storie di rastrellamenti, e giudizi tratti da pagine bianche si continui pure sul metro del signor Mosca.
Luigi Papo