Intervento tenuto dal Prof. Giuseppe Parlato lunedì 12 febbraio alla cerimoniale istituzionale di Roma Capitale in occasione del Giorno del Ricordo 2024.
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Può apparire strano, oppure addirittura surreale, che dopo quasi ottanta anni dai fatti, si debba ricorrere alla presenza di un Giorno del Ricordo per commemorare istituzionalmente la tragedia delle foibe e dell’esodo.
In un paese normale, infatti, questa dolorosa pagina sarebbe naturalmente inserita nella storia e nella cultura civile della nazione, inserita nel dramma della seconda guerra mondiale e non sarebbe più occasione per altre divisioni politiche o per interpretazioni condizionate da visioni ideologiche.
Invece, per sessant’anni, fino alla istituzione del Giorno del Ricordo, c’è stato un silenzio pesante, dovuto a opportunità politiche, a reticenze di partito, a superficialità, a noncuranza, a indifferenza. Assente nel dibattito civile, assente sui libri di scuola, assente, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino, nella ricerca storica, la questione della frontiera orientale è rimasta un buco nero, una pagina strappata nel gran libro della storia, qualcosa di cui era meglio tacere.
La necessità del Giorno del Ricordo risulta sempre più evidente e opportuna ogni anno che ci si distanzia dagli avvenimenti.
In venti anni si è percorso un cammino proficuo: nelle scuole ormai si sa che cosa siano state le foibe, si ha, magari confusa, la percezione dell’esodo, si ha contezza, in qualche modo, dei motivi che hanno impedito che per circa un sessantennio questo tema diventasse una pagina presente nella narrazione nazionale, un tema di riflessione civile, un monito per evitare il suo ripetersi.
Sessant’anni, è bene ricordarlo subito, nei quali la memoria di questa pagina drammatica e dolorosa è stata presente soltanto grazie alle memorie dei superstiti, dei parenti degli infoibati, dei profughi che con tenacia e senza appoggi da parte dei politici o dei mezzi di comunicazione di massa, sono riusciti a tenere vivo il ricordo di quanto era successo. Di questo dobbiamo ringraziarli perché se siamo qui a parlarne il merito è soprattutto di questa comunità che con dignità e sacrificio non ha mai smesso di ricordarci la nostra carenza di attenzione nei confronti di un tema che, nei decenni, di ben altra disponibilità da parte delle istituzioni e degli storici avrebbe avuto diritto.
Ma ci sono ancora alcuni aspetti che andrebbero sottolineati per dare al problema una giusta dimensione.
In primo luogo, il fatto che si tratta di una comunità che non casualmente, fra il 1943 e il 1945, si trovava in Istria e Dalmazia. Qualche studente, nelle varie conferenze tenute nelle scuole, mi ha chiesto in sostanza: “Ma che ci facevano degli italiani nella ex Jugoslavia?”, come se fossero turisti o profughi nella accezione attuale del problema, che fuggono dal loro paese per ragioni di guerra o di condizioni difficili a livello economico.
Credo sia importante ricordare che si trattava (e per una piccola parte, ancora si tratta) di una comunità che parla la lingua italiana o un dialetto latino da ben prima della presenza della Serenissima in quei territori, e cioè ben prima del 900. La Repubblica di Venezia, in quasi un secolo di presenza in Istria e in Dalmazia, rafforzò questo legame linguistico e culturale, tanto da farne un modello di autonomia rispetto ai tentativi di snazionalizzazione dell’Austria e della Croazia nel corso dell’Ottocento.
Le scuole italiane, i giornali italiani, le comunità italiane promosse dalla Dante Alighieri e dalla Lega Nazionale, difesero la libertà e l’identità di quelle popolazioni, che già grazie a Venezia, erano diventate classe dirigente in Istria e nella costa dalmata: gli italiani erano avvocati, sindaci, professori, medici, imprenditori ma anche semplici contadini e semplici lavoratori e casalinghe, come fu chiaro anche nella Penisola quando furono redatte le prime statistiche degli esuli, che i titini volevano solo fascisti, proprietari terrieri e imprenditori. E come in Istria e in Dalmazia con la Serenissima, avvenne anche a Fiume e a Trieste, che non furono così costantemente interessate dal dominio della Repubblica del Leone di San Marco.
Questo spiega il rapporto culturale di quelle terre con Firenze, ad esempio, a livello letterario il mito di Dante o la presenza di un Niccolò Tommaseo, autore di un celeberrimo dizionario dei sinonimi e dei contrari, colonna della nostra cultura alta: e Tommaseo era un dalmata di Sebenico.
Per cui si comprende come le vicende successive alla seconda guerra mondiale abbiano malauguratamente raggiunto lo scopo che Tito si era prefissato: quello di eliminare questo secolare blocco di cultura e di civiltà attraverso la cacciata degli italiani da quei territori, una cacciata determinata sia dal clima di insostenibile terrore prodotto dalla foibe, sia dalle condizioni di vita di coloro che in un primo momento erano rimasti, per sintonia ideologica o per ragioni familiari, costretti anch’essi a lasciare le loro terre nelle quali non potevano più parlare italiano, non potevano seguire le pratiche religiose, non potevano più disporre dei propri beni ormai diventati dello Stato.
Allontanare gli italiani, così come vedremo, eliminare altri nemici del popolo sloveni e croati, rientrava nei piani del maresciallo Tito nell’ottica di liberarsi di quanti avrebbero potuto ostacolare i piani di creazione di una società socialista e dittatoriale in quei territori.
Un altro aspetto da sottolineare è quello della contestualizzazione.
Premesso che ogni fenomeno storico, anche il più insignificante – e questo certamente non lo è -, ha bisogno, comporta una contestualizzazione, sulle foibe e sull’esodo da tempo è in corso un racconto di contestualizzazione che si può sintetizzare nel concetto: che cosa andiamo celebrando il 10 febbraio quando le foibe e il relativo esodo altro non sono che una forse eccessiva reazione alle violenze fasciste perpetrate per un ventennio?
La superficialità del ragionamento finisce – più sui social che sui libri di storia – con l’avere una rapida presa. Ma non è così.
La storia, se ben letta, ci spiega che nelle foibe sono finiti anche gli antifascisti di sinistra, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, gli autonomisti antifascisti di Zanella a Fiume; che non vi fu alcuna insurrezione popolare della popolazione slava né nel settembre 1943, né nel maggio 1945; che gli italiani sono stati infoibati dai partigiani titini su ordine dei militanti dell’Ozna, la polizia titina, su precisi ordini dall’alto, per seminare quel terrore che li avrebbe fatti andare via in massa. Inoltre, la storia ci spiega anche che persino i comunisti cominformisti di Monfalcone, gli operai di Monfalcone, finirono a Goli Otok, a dispetto del loro proclamato comunismo, ma un comunismo diverso da quello del Maresciallo.
E ciò non per risposta alla presenza fascista, la quale certamente aveva operato in quei territori in termini di snazionalizzazione, cosa assolutamente odiosa, o alla guerra di occupazione della Slovenia per la quale furono organizzati i campi di concentramento per i partigiani comunisti o presunti tali.
Lo ha detto con estrema chiarezza il presidente Mattarella nel discorso dal Quirinale del 9 febbraio: “La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o sommaria giustizia, contro i fascisti occupanti”.
Così come le accuse di fascismo rivolte agli esuli, nell’Italia democratica del 1947 e del 1948, atti di violenza compresi, debbono essere tenuti presenti quando si ricostruisce la storia di quelle vicende perché sono collegate strettamente al discorso di cui sopra: il giustificazionismo è la malattia senile del negazionismo. Non potendosi più negare le foibe – come si faceva trent’anni or sono – si tenta di giustificare o di minimizzare gli eventi con la scusa di una rozzamente interpretata contestualizzazione.
Sempre il Presidente della Repubblica ha affermato chiaramente che “I tentativi di oblio e di negazione, o di minimizzare, sono un affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione”.
E allora le foibe, come direbbe qualcuno, che cosa ci rappresentano?
Foibe, esodo, questione orientale possono diventare da tragedia a modello di superamento delle vecchie contrapposizioni. Solo che lo si voglia.
Non dovranno più essere un problema che interessa solo il Nord est, devono diventare una questione nazionale e cioè rientrare a pieno titolo nella storia e nell’identità della nazione. In questo la scuola può fare moltissimo.
Sono state varate nel 2022 dal Ministero della Pubblica Istruzione le Linee guida per la didattica della Frontiera adriatica: un esempio significativo, richiesto dai professori, di come si possa fare luce in termini didattici sulla questione delle foibe e dell’esodo, in maniera equilibrata, responsabile, evitando di trasformare il problema in tifo da stadio. Si tratta di un passo importantissimo perché le Linee guida permettono ai docenti di avere a portata di mano strumenti idonei per illustrare la questione a vari livelli didattici, dalla scuola primaria ai licei.
Da studioso di storia l’occasione non è da trascurare. Si tratta di sviluppare gli studi sull’argomento, un tempo soltanto localizzati nel nord est; è molto positivo che il tema oggi raggiunga le tesi di laurea, i dottorati di ricerca; sui progetti di ricerca nazionali siamo ancora indietro ma ci sono le condizioni per potere raggiungere anche questo livello.
Ciò in modo da sviluppare la ricerca sul tema. Molte cose sono ancora da comprendere meglio, da confermare, da perfezionare. Ad esempio, l’apertura dell’archivio di Croce Rossa italiana agli studiosi potrà fare luce sul ruolo avuto dalla Croce Rossa in merito all’assistenza ai profughi, di cui ancora pochissimo si sa.
Così come pochissimo si sa sulle “nuove” foibe slovene, alcune delle quali a pochi chilometri da Trieste, situate in zone vicine a luoghi di battaglia fra truppe italiane e titine (Selva di Tarnova) o prossime a campi di concentramento dove furono detenuti molti italiani (Borovnica): in questo caso, con buona pace dei riduzionisti, purtroppo il numero degli italiani infoibati sarebbe destinato ad aumentare sensibilmente.
Ma sarebbe da considerare anche un’altra dimensione, quella europea, attraverso la tragica situazione degli sloveni bianchi: da una prima ricognizione in un centinaio di foibe mai analizzate, vi sarebbero centomila corpi, quasi tutti sloveni bianchi, religiosi, liberali, possidenti, insomma anticomunisti, nemici del popolo. La studio del problema si arricchirebbe di un altro elemento. Se per quelle in Istria, fu il fattore della italianità l’elemento prevalente a determinare le stragi, in Slovenia fu invece una questione ideologica, l’essere un possibile oppositore al sistema politico jugoslavo, l’essere nemico del popolo, a scatenare la violenza di massa. Lo scontro fra i totalitarismi non colpisce solo l’Italia ma si estende drammaticamente ai Balcani. altro che riduzionismo… Più che di pulizia etnica si dovrebbe ormai parlare di una pulizia ideologica.
Appunti e spunti per i futuri storici. Sì, perché la questione dell’esodo e delle foibe non resti confinata alla memoria degli esuli ma diventi oggetto di dibattito civile, motivo di studio approfondito senza contrapposizioni ideologiche o in malafede.
Se ciò accadrà, come io spero e come tutto lascia sperare, la sofferenza delle vittime e quella degli esuli avrà dato, oltre a quell’altissimo insegnamento morale che fu l’essere stati due volte italiani, per nascita e per scelta, anche un contributo alla creazione di una storia onesta e libera, la sola in grado di trasformare le divisioni in momenti di costruzione civile in grado di gettare le basi per una convivenza costruttiva e pacifica.
Una storia che non consenta, per il futuro e per qualunque evento, altri sessant’anni di colpevole silenzio.
Giuseppe Parlato
Professore emerito di Storia Contemporanea dell’Università degli Studi Internazionali di Roma