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peacereporter.net – 200607 – Elvira Mujcic: in Italia non si può parlare di Tito

Esistono storie che, pur se raccontate mille volte, lasciano dietro di loro ombre difficili da dissipare. E' il caso di Srebrenica, dove è stato commesso il crimine più atroce in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Tanti hanno raccontato Srebrenica, ma non sembra mai abbastanza. Tutto sembra già detto e scritto, ma tutto sembra ancora da raccontare. Tra libri, documentari e quant'altro, un posto di rilievo nella ricostruzione dell'orrore di Srebrenica spetta a una giovane scrittrice bosniaca, Elvira Mujcic, che con il suo Al di là del caos è riuscita a rendere, senza luoghi comuni e retorica, un concetto profondo: le guerre lasciano segni indelebili, anche su coloro che sopravvivono. E non sempre si vedono a occhio nudo.

Un incubo che diventa realtà. L'11 luglio 1995, dopo giorni di furiosi combattimenti, l'esercito serbo-bosniaco riuscì a entrare definitivamente nella città di Srebrenica. Era una zona protetta, abitata da una maggioranza di musulmani nel tumulto dei serbi. Alla fine Srebrenica non è stata protetta da nessuno. Secondo fonti ufficiali le vittime del massacro furono circa 7.800, ma alcune associazioni affermano che furono oltre 10 mila. Qualcuno si salvò, e tra loro Elvira. Ma è difficile stabilire se ci si possa salvare davvero da quello che accadde a Srebrenica. Elvira ha dovuto scrivere per cauterizzare le sue ferite, “come mi ha consigliato di fare la mia psichiatra”, racconta lei stessa con l'ironia intelligente che pervade tutto il suo libro. Un libro che serve a lei per mettere a posto certe cose, e per raccontare la guerra senza orpelli retorici. Per farlo ha scelto di scrivere e, almeno a giudicare dalle citazioni musicali che accompagnano tutto il racconto, stupisce quasi che Elvira non abbia scelto la musica per raccontare la sua storia.
“Io sono la donna delle citazioni. Per ogni momento della mia vita, per ogni cosa che mi viene detta, ho una citazione da farti. Soprattutto letterarie, visto che leggo da quando ho 4 anni – commenta la Mujcic – nel libro, alla fine, mi sono fatta trascinare dalla musica, di cui cito le parole, anche se tante volte è la musica stessa che vorrei evocare, ma in un libro non posso! La scelta è dovuta al fatto che il mio è un libro fatto di sensazioni, e forse la musica aiuta di più a trasmetterle. Lo faccio anche con le cose che sto scrivendo adesso: mentre lavoro, annoto in cima alla pagina la musica che ascolto in quel momento. Anzi, all'inizio c'erano molte più citazioni, poi però mi sono riletta, e mi sono trovata un sacco pesante. E allora mi sono detta: togliamone un po'. Ed è per questo che, volendo recuperare le mie sensazioni di allora, e non scrivere un libro adesso sulla guerra, ho tentato di recuperare la musica che ascoltavo, per recuperare anche le sensazioni di allora”.
 
Non c'è pace senza giustizia. Non un sguardo volto all'indietro quindi, ma un viaggio nel cuore di una ragazzina di 14 anni, in mezzo alla bufera.
“Tutti, guardando indietro, non possono che dire che la guerra è una gran brutta cosa. E' normale”, racconta Elvira, “ma io non volevo scrivere di quello che è successo partendo dall'oggi, bensì recuperando la dimensione di allora, quando raccogliere le granate o vivere in un campo profughi, per una ragazza di 14 anni, sembra divertente. In ogni cosa, se hai quell'età, trovi un divertimento. E mi sembrava giusto dirlo. All'epoca, io volevo tornare a tutti i costi a Srebrenica o nel campo profughi, perché mi sentivo più a mio agio là che in un piccolo paese in Italia”.
Da Srebrenica, con madre e fratelli, Elvira è fuggita, poco prima che la follia avesse il sopravvento. Alle sue spalle ha lasciato il padre, lo zio e tante altre persone che, fino a pochi giorni prima, rappresentavano la sua vita, la sua quotidianità. Il padre non è mai stato trovato e, salvo alcune segnalazioni di testimoni del tempo, a lei e alla sua famiglia resta il ricordo. Lo stesso che accompagna il dolore di migliaia di famiglie di Srebrenica, che vorrebbero un corpo da seppellire e una tomba sulla quale piangere. O almeno vorrebbero vedere in carcere i responsabili del massacro.
 
Tra memoria e giustizia. Con il rischio però che, fino a quando non si viene a patti con il passato, non si riesce a costruire il futuro. “E' vero, ma è difficile però”, risponde la Mujcic, “si può dire ok, ormai è successo e so chi è stato. Però dai più grandi carnefici, fino ai più piccoli aguzzini, tanta, troppa gente è in giro per la strada. Diventa una questione di giustizia, non di memoria. Non è la punizione del colpevole che ti permette di elaborare il tuo lutto, ma almeno l'idea che se vai a fare la spesa non incontrerai certe persone, libere di andarsene a passeggio. Io riuscirei a convivere con i serbi solo nel momento in cui fossi davvero sicura che almeno la maggior parte delle persone che hanno fatto certe cose fosse stata punita. In Italia per esempio, riesco ad avere rapporti con persone che vengono dalla Serbia, però quando arrivo a Srebrenica no. Lì loro sono loro, e per me finiscono per diventare tutti colpevoli, proprio perché i veri colpevoli non sono stati puniti, e io non posso distinguerli dagli innocenti. E' difficile riuscire a fidarsi. Lo abbiamo fatto una volta e, anche se tutti dicevano che la guerra non sarebbe arrivata, alla fine è andata a finire così. Poi lo so anche io che non torneremo alla bella Jugoslavia di Tito, ma almeno sarebbe un buon punto di partenza. La punizione dei colpevoli farebbe bene a tutti, vittime e carnefici”.

Tito o non Tito? Ma come, la bella Jugoslavia di Tito? In Italia è una specie di bestemmia. “Lo so bene, e infatti ho deciso che alle presentazioni del libro non ne parlo più”, risponde con un sorriso Elvira. “Appena accenno all'argomento mi saltano addosso, dicendomi che non sono una donna libera perché rimpiango la dittatura. E' difficile spiegare, anche perché devo riuscire a scindere quella che sono oggi, ben consapevole di certe cose, da me bambina, cresciuta con una mamma che dire comunista è poco. E' difficile spiegare che, tranne parlare male di Tito, tutto si poteva fare nella ex Jugoslavia. L'aspetto più strano è che sull'argomento Tito trovo sempre ostilità, tranne quando parlo con persone che provengono dall'ex Jugoslavia e loro puntualmente sono d'accordo con me. In Italia c'è un'unica idea in merito: noi eravamo dei poveracci, sottomessi da Tito, che ci aveva tenuti assieme a frustate. Nessuno si chiede come mai ci fossero il 46 percento di matrimoni misti nella ex Jugoslavia. Non posso certo negare che ci siano state le foibe, oppure che non sia esistito il carcere di Goli Otok. Però in Italia ci si limita a considerare questo, senza approfondire come era la Jugoslavia. E allora alla fine mi annoio a passare per la paladina del comunismo e lascio perdere”. L'Italia già, dove non è difficile solo parlare di Tito. I Balcani per esempio, così lontani, così vicini. Ma quanto in questo paese si conosce davvero quella regione martoriata dalla guerra, ma anche ricca di cultura e tradizioni che qui, spesso, ignoriamo.
“In Italia, a parte Paolo Rumiz, che poi se n'è distaccato, ben pochi hanno capito i Balcani”, spiega Elvira, “ il suo 'Maschere per un massacro' mi ha colpito al punto che, dopo aver letto le prime righe, ho esclamato ''ecco qualcuno che ha capito qualcosa''. Pochi altri, come Luca Rastello e Roberta Bigiarelli, hanno capito. In genere c'è molta superficialità”.

Di passaggio. L'Italia appunto, rifugio prima e casa adesso, a Roma. “In genere, nella mia vita, non faccio delle scelte. Vengo sballottata. Non ho scelto, sono arrivata qua a 14 anni – racconta Elvira – Sebrenica è stata assegnata alla Repubblica Srpska e, dopo la guerra, non potevamo comunque tornare indietro. Sono rimasta qui, e alla fine ho imparato meglio l'italiano del bosniaco. Sto meditando di tornare a vivere in Bosnia, credo a Sarajevo, almeno per un anno, ma è una decisione difficile”. Difficile ma sentita, perché uno dei personaggi del racconto è Venesa, la cugina di Elvira, che come lei ha perso il padre in guerra, ma è rimasta a vivere in Bosnia. E, quando ne parla nel libro, Elvira sembra quasi sentirsi in colpa verso coloro che sono rimasti.
“La voglia di tornare è più emotiva che razionale”, racconta Elvira, “vorrei rivivere le quattro stagioni in Bosnia per esempio. Adesso mi sento molto più italiana che bosniaca, e mi da fastidio. E' una cosa bruttissima. Quando vado in Bosnia, e parlo il bosniaco con l'accento italiano, tutti mi dicono “brava, dove hai imparato il bosniaco?”. E poi vorrei vedere come si vive in Bosnia da grandi, perché conservo questa immagine nostalgica della mia terra, legata alla mia infanzia. E anche i rapporti di allora, adesso sono solo l'alter ego di quello che erano. Grazie al libro sono riuscita a tirarle fuori, alcune cose, ma per poterle rimettere in una scatola ho bisogno di stare un po' in Bosnia”. Tra le cose da riporre ci sono anche i sensi di colpa rispetto alla guerra. “Si, sono in genere legati all'idea di non essere stata lì a soffrire con loro. È un po' un problema dei sopravvissuti: ci si sente in colpa perché si è avuto da mangiare, perché non si è patito il freddo. Fondamentalmente perché sei arrivato a 27 anni, e gli altri no”. La guerra fa sentire in colpa chi sopravvive, ma lascia a loro il compito di raccontare, come ha fatto Elvira Mujcic.

Christian Elia

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