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Pino Bartolomè, esule scrittore in Australia (Voce del Popolo 08 mag)

Il fiumano Pino Bartolomè, esule a Melbourne, in Australia, ci ha fatto pervenire in redazione una copia del suo libro intitolato “Esilio e nuova vita sotto la croce del sud”, pubblicato grazie al sostegno dell’Associazione Giuliani nel mondo e della Regione FVG. Nato a Fiume nel 1936, Pino Bartolomè frequentò la scuola elementare Alessandro Manzoni, e poi la Belvedere (a quei tempi unica scuola media settennale). Lasciò la sua città natale insieme ai genitori, Nina e Giuseppe, e alle sorelle, Arianna e Mirella, l’una di un anno più giovane, l’altra di un anno più grande di lui. Dopo una sosta a Trieste e un periodo passato in vari campi profughi in Italia, nel 1952 la famiglia emigrò in Australia. Ultimati gli studi, dopo aver lavorato nel settore dell’ingegneria elettrica per diverse società industriali, e quindi in proprio, Pino si ritirò in pensione nel 1999. Dal 1963 al 1985 è stato uno degli spiritus movens della Comunità fiumana di Melbourne. Ebbe un ruolo determinante anche nella fondazione dell’Associazione italo-australiana Città di Fiume, della quale è presidente fin dal 2001. Padre di due figlie (ed è proprio a Marisa e Michelle ed ai suoi nipoti che ha dedicato il suo libro), da sempre appassionato sciatore di discesa libera e di fondo, Pino ama ritirarsi tutt’oggi a Mount Buller, dove si è fatto costruire uno chalet di montagna nel quale ama ritrovarsi, spesso circondato da tanti amici, esuli fiumani e giuliani come lui e loro discendenti. Qui vi proponiamo in lettura uno stralcio tratto dalla prima parte del suo libro, intitolato “La guerra”, in cui ricorda con vividissima memoria il periodo dell’infanzia trascorsa a Fiume e l’imminente esodo.

Da secoli vivevamo in una città di confine in armonia con un vicinato di diversa etnia e diverse tradizioni culturali e lingua. Una linea immaginaria divideva l’oriente dall’occidente. Tutti i membri della mia famiglia sono nati a Fiume, mio padre nel 1902 e mia madre nel 1905, sotto l’Impero Austro-Ungarico, mentre io, del 1936, e le mie sorelle Mirella, del 1935, e Arianna, del 1937, siamo nati sotto il Regno d’Italia. Ricordo ancora il primo sfollamento da Fiume, nel 1941, quando l’Italia invase la Jugoslavia. Avevo cinque anni. Siamo sfollati con la mamma e le sorelle nella vicina Abbazia, nel golfo di Fiume. Alloggiavamo presso l’albergo Quarnaro. Mio padre come tutti gli uomini della città, rimase a Fiume. Fu un distacco breve e non voluto. A Fiume, come nel resto della regione Venezia-Giulia, si viveva modestamente, il lavoro non mancava e il perno della vita era la famiglia, i parenti e i nonni. A Natale, Pasqua e San Nicolò (6 dicembre) per noi giovanissimi, erano giorni felici e di attesa. Noi bambini frequentavamo la scuola, impegnati a imparare e a fare nuove amicizie. Papà lavorava come operaio per una ditta di acque minerali, la mamma, regina della casa, era occupata nelle faccende domestiche. Era modista di mestiere e per aiutare papà, confezionava berretti invernali da uomo. Il guadagno era modesto, ma molto utile per incrementare le finanze della famiglia. Era brava anche nel taglio e nel cucito. Con la vecchia “Singer”, si impegnava nella confezione del vestiario necessario alla giovane famiglia. Noi, come tutti i bambini, eravamo spensierati e sempre ricchi di nuove idee. Nel 1941 con l’entrata in guerra dell’Italia, lentamente le cose cambiarono. Arrivarono i primi segnali d’allarme seguiti da ansie e paure. Con l’Armistizio del 1943 si pensava che fossimo finalmente giunti al termine della guerra che avremmo avuto finalmente la possibilità di una vita migliore. Ben presto ci accorgemmo che era un’illusione. Qualche giorno dopo le truppe tedesche bombardarono la vicina Sussak, oltre il confine con la Jugoslavia. In serata le truppe tedesche invasero la città e qualche giorno dopo attraversarono il confine, invadendo la Jugoslavia. Il terrore del rombo degli aerei, il sibilo e il fragore delle bombe, mi causarono uno spavento tale che rifiutai il cibo per qualche giorno, preoccupando non poco i miei genitori. Fortunatamente mio padre era a casa con noi, essendo stato esonerato dalla chiamata alle armi perché a capo di una famiglia numerosa. Suo fratello minore venne invece richiamato. Iniziarono subito le retate da parte tedesca, non solo dei giovani sopra i sedici anni, bensì di tutti quelli abili al lavoro, reclutati per gli scavi delle trincee e per gli appostamenti di batterie antiaeree e costiere. Chi rifiutava o scappava, quando veniva ripreso, finiva nel campi di concentramento in Germania. Tanti non fecero più ritorno. Anche mio padre venne preso in una retata e fu costretto a condurre un grosso carro trainato dai cavalli, per il trasporto delle munizioni per i soldati tedeschi che occupavano il distretto. Mio padre parlava bene l’italiano, ovviamente il dialetto veneto-fiumano, un discreto tedesco, il croato ciakavo locale e un poco di ungherese. Incominciarono i tempi duri, tutto era razionato e tesserato. Con il passare dei giorni la scarsità di generi alimentari si fece sempre più acuta. Mia madre non si perdette d’animo. Procuratasi un paio di scarponi e uno zaino militare lo riempì di piccoli utensili, di vecchi regali di matrimonio e di sigarette. Assieme ad alcune vicine di casa si diresse verso i paesi nelle campagne dell’Istria. A volte prendevano il treno, quando non c’era pericolo di imboscate. I partigiani irregolari di Tito minavano di frequente i binari e le strade e le vittime erano per lo più innocenti civili. Queste donne coraggiose scambiavano i loro oggetti, argenteria, camicie e vestiti, con i contadini, in cambio di alimentari. Le incursioni aeree degli Alleati arrivavano puntualmente, ogni giorno e anche di notte. Andavamo a coricarci vestiti. Al suono delle sirene ognuno prendeva la propria piccola valigia e di corsa ci precipitavamo verso il rifugio antiaereo, nella galleria non molto distante da casa. Abitavamo al pianterreno di un edificio a due piani. Il comune aveva convertito una delle stanze da letto in rifugio antiaereo di emergenza, dove trovavano riparo i vecchi del vicinato che non potevano camminare, mentre noi tre ragazzini dovevamo dividere la stanza matrimoniale con i genitori. Un giorno, verso la fine della guerra, quando mia madre con le vicine di casa era nuovamente andata verso l’Istria, per il solito giro alla ricerca di viveri, i soldati tedeschi si appostarono lungo la nostra strada, che era quasi in prima linea, mettendo una mitragliatrice pesante sul muretto di fronte l’entrata della nostra abitazione. Quando, dopo qualche giorno, mia madre fece ritorno, alla vista di tutti quei tedeschi appostati tra i portoni delle case e i muretti di sassi, anziché farsi prendere dal panico, reagì con molta calma. Prima che qualche soldato s’accorgesse del contenuto dello zaino, entrò in casa. Tirò fuori dallo zaino un filone di pane, che tagliò a grosse fette, spalmandole con un poco di burro e marmellata, procurati con grande fatica durante il suo mercanteggiare in Istria. Colmò due piatti e ci mandò a distribuire quel poco di pane ai soldati tedeschi appostati nelle vicinanze. Poi fece subito occupare la stanza matrimoniale dai bambini del caseggiato, evitando così che venisse requisita dai soldati. Stavamo un po’ stretti in quella stanza piccola, ma l’essere tutti insieme ci faceva sentire più al sicuro. Qualche giorno dopo i tedeschi portarono la loro cucina da campo vicino alla nostra abitazione. Dopo la distribuzione del rancio, il rimanente venne distribuito ai ragazzini della contrada e i primi a ricevere un po’ di cibo fummo io e le mie sorelle. Anche la mamma ricevette una mezza gavetta di rancio tedesco. Nei giorni seguenti, la nostra cucina fu usata dalle truppe tedesche come pronto soccorso per i feriti, e il tavolo della cucina come tavolo operatorio. I tedeschi si ritirarono ordinatamente dalla nostra contrada nella serata del 29 aprile del 1945 e noi dalla terrazza del secondo piano di casa nostra, guardavamo in silenzio la loro ritirata. Per qualche giorno regnò una calma non conosciuta prima, non più fischi di granate che volavano al di sopra delle nostre teste, non più colpi di cannone o crepitio delle mitragliatrici. Un silenzio irreale.
Tratto da “Esilio e nuova vita – Sotto la croce del Sud”.

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