di PAOLO RUMIZ
A Umago tanti anni fa – qualcuno ancora lo ricorda – c’era un tipo che tutti chiamavano “el moro Dobrila”. Pescava ed era noto per fare colazione con una mezza pinta di vino e basta. Parlava istro-veneto, aveva un bel cognome slavo e una carnagione così scura da sembrare quasi africana. La sua genealogia non risultò mai chiara a nessuno, ma per tutti, lui era uno del posto. Perché lo racconto? Perché forse l’elezione di un sindaco africano a Pirano, o Piran che dir si voglia, non è una cosa moderna come appare. Forse è una cosa vecchia come l’Istria e il Mediterraneo.
La storielle serve anche a dire che l’elezione, il clamore che ha suscitato e il putiferio seguito alla dichiarazioni “patriottiche” dello scrittore Boris Pahor, meritano una riflessione. Perché qui siamo di fronte a una delle classiche situazioni in cui le due parti in causa hanno ragione. Un rompicapo affascinante che chiama in causa le eterne questioni della patria, delle radici, della cittadinanza e nazionalità, della lingua e dell’omologazione da pensiero unico. Un tema su cui tutti dovremmo avere l’onestà di riflettere.
Hanno ragione i giovani della costa slovena o italiana che sia, a rivendicare la “istrianità” a tutti gli effetti del nuovo sindaco, reagendo al disappunto di Pahor. L’appartenenza adottiva, legata al suolo, è spesso molto migliore di quella ereditaria, di sangue. E non solo: chi viene da fuori ha il vantaggio di poter vedere con distacco le complicazioni e le emicranie di una terra di frontiera. Sono convinto che se Trieste avesse per sindaco un architetto austriaco o un indiano del Centro di fisica teorica, farebbe un affarone. Perché spazzerebbe in un colpo solo gli assenteisti militanti che, con poche eccezioni, la città continua a eleggere per inerzia, malafede o nella speranza di miserabili, vantaggi. Un forest? Magari! Ci ricollegherebbe al mondo. Ci leggerebbe mille volte meglio di una Roma qualunque.
Ha ragione anche Boris Pahor quando dice che le radici si stanno indebolendo, l’attaccamento alla patria pure, e su tutto passa un nefasto pensiero unico che annacqua le differenze. Condivido con lui il fatto che siamo di fronte a un’aggressione globale, cui si deve rispondere con l’impegno politico, presidiando il territorio e preservandone i profumi, le lingue anche locali, la storia, le diversità anche plurali. Mi metto fino in fondo nelle scarpe di un uomo che si è visto negare la sua lingua e cultura dal fascismo, e poi ha subito l’appiattimento internazionalista del comunismo post-bellico. Capisco la sua ansia, soprattutto se letta al capolinea di una lunghissima vita, cominciata sotto Franz Josef, prima dell’inizio della Grande Guerra.
Come è possibile che entrambi abbiano ragione? Forse le due parti omettono un dato. Pirano appartiene alla Slovenia e su questo non ci sono dubbi; possiamo discutere per giorni se questa destinazione sia giusta o no, ma su questo non ci piove. Il problema è che Pirano è di gran lunga la meno istriana e anche la meno slovena delle città della costa. Perché? Era la più istroveneta di tutte. Molto più di Capodistria e Isola, e persino di Trieste. Pirano era una succursale di Venezia ed era l’unica in quel tratto di costa a non aver mai avuto anche un nome sloveno. Insomma: un isola veneta in un mare plurilingue. Basta passeggiare per il centro. Un altro mondo rispetto a Trieste, figuriamoci rispetto a Lubiana. Le pietre la dicono lunga.
Che nel Secondo dopoguerra gran parte di quella popolazione sia stata messa nelle condizioni di far le valigie e andarsene è un fatto assodato. Quello che si dice meno è che, al tempo della Jugoslavia, le case lasciate vuote dagli istro-veneti furono riempite non da sloveni ma da albanesi, macedoni, serbi, erzegovesi, turchi del Sangiaccato. Al massimo da subalpini di Maribor cresciuti a luganighe. Il tentativo era di “jugoslavizzare”, non di “slovenizzare”. Il risultato fu che le radici istriane di Pirano si spezzarono e i pochi sloveni autoctoni di Capodistria si trovarono come vicini di casa degli alieni che nulla avevano a che fare con la cultura del malvasia e dell’olivo. Su questo Pahor ha dice il vero.
L’elezione del nuovo sindaco è figlia di questa modifica forzata degli equilibri etnici. I nipoti cosiddetti “alieni” di allora hanno messo insieme qualcosa che – culturalmente – è assai più internazionale che sloveno. Ma contemporaneamente la forza delle pietre venete, insieme al profumo della malvasia e dell’ulivo, ha conquistato gli immigrati di mezzo secolo fa, i quali ora si sentono istriani a tutti gli effetti, perché l’istrianità è sempre stata un’appartenenza plurale, nella quale c’è posto per tutti. Come Novi Sad, dove i nomi delle vie sono in cinque lingue. O come la stessa Trieste. Questo, ripeto, non significa mettere in discussione gli equilibri nati dal disastro della seconda guerra mondiale. Significa solo chiamare le cose col loro nome.
A Pirano ha vinto la “matria”, cioè la madre terra che da sempre accoglie i foresti e di recente ha accolto i “diversi” chi si sono trovati ad abitarla causa per gli sconquassi della geopolitica; non ha vinto la “patria” nel senso della terra dei padri, cioè la genealogia, che è stata ormai irrimediabilmente alterata dalla storia. Il sindaco color ebano di Pirano è il corollario perfetto di una storia che inizia più di mezzo secolo fa, e forse è molto più antica. Una scelta di diversità, in cordiale antitesi alle logiche lubianesi. Egli rappresenta a pieno titolo le radici, ma in un senso diverso e più moderno. “Un sindaco italofono sarebbe stato meglio” ha detto Pahor, e meno male che almeno questo ci viene concesso. Ma non è questo il punto.
Capisco la paura “biologica” di scomparire che lo scrittore sloveno esprime. Ma è una paura perdente. Le genealogie e le radici nel senso di pedigree razziale ormai vanno allo sconfitta. E’ illusorio credere che i piccoli popoli possano farcela chiudendosi. L’unica resistenza all’omologazione è “adottare” stranieri e naturalizzarli, sostituendo le genealogie con le radici “adottive”, la forza – spesso plurale – dei luoghi nel nome di regole comuni. Ricordiamocelo, nessuno più degli alieni ebrei ha reso universale la cultura tedesca. Da questo punto di vista Pirano ha fatto una scelta di una modernità sconvolgente. Perché ha scelto un forestiero senza negare le radici. E le radici sono l’unica risposta alle logiche del patriottismo muscolare, retorico o banalizzante. I diritti della terra contro quelli del sangue.