di Miska Ruggeri
La prima edizione, uscita nel 1994, fu il primo libro di Marco Pirina, presidente del Centro studi e ricerche storiche “Silentes Loquimur” di Pordenone, ad avere una distribuzione nazionale e a far conoscere così a un più vasto pubblico i drammi vissuti dal popolo giuliano, considerati un «crimine contro l’umanità» programmato dalla Jugoslavia con la complicità di alcuni italiani succubi dell’ideologia comunista, con lo scontato corollario di polemiche e accuse (revisionismo, filofascismo…), perfino minacce. Ora la settima edizione di Dalle foibe all’esodo. 1943-1956. Il perché del silenzio dei vivi (Centro studi “Silentes Loquimur” pp. 376, euro 26), in uscita in questi giorni e arricchita di un’appendice documentaria di oltre
100 pagine, promette di fare altrettanto rumore. Con nuove scoperte. I documenti, provenienti dagli archivi inglesi, di Lubiana, di Belgrado, del CLNAI, dal nostro ministero degli Esteri, dal carteggio tra l’arcivescovo di Udine monsignor Nogara e Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) ecc., mostrano tutti il tradimento subito dalle popolazioni istro-venete e italiane. In primo piano gli scellerati accordi tra il CLNAI e il Movimento di Liberazione Jugoslavo per risolvere con le formazioni “garibaldine” il problema dei confini orientali prima dell’arrivo delle truppe alleate, premessa obbligata della tragedia delle foibe.
Ma le pagine più sconvolgenti riguardano i silenzi sui deportati nei campi di lavoro e rieducazione jugoslavi. Si tratta di fascisti, certo, di militari della Rsi, ma anche di soldati del Regio esercito abbandonati al loro destino dopo l’8 settembre 1943, di comuni cittadini, di volontari delle brigate partigiane italiane, di comunisti doc contrari ai piani di Tito, di membri del CNL di Gorizia e Trieste. I dati complessivi non si potranno mai avere, perché ai tanti rastrellati nell’area jugoslava si aggiunsero quelli che rientravano dai lager tedeschi, catturati in Carinzia e nel tarvisiano (migliaia secondo una relazione inviata alla Segreteria di Stato del Vaticano). Nei campi, in cui i prigionieri erano inquadrati in “Battaglioni prigionieri italiani”, vi erano Comitati antifascisti, formati da controllori ed educatori del Pci, con il compito di gestire la rieducazione, fino al giudizio di affidabilità politica che giustificava il rimpatrio. Così, dopo un incontro tra Togliatti e Tito, tra novembre e dicembre del 1946 tornarono in Italia circa 10mila prigionieri; poi, nel marzo 1947, quindici ufficiali e 750 soldati. Mentre i discriminati politici, oltre mille soldati e 63 ufficiali, segnalati dalle cellule comuniste italiane alle autorità jugoslave come «elementi reazionari» restii alle dottrine progressiste, rimasero prigionieri. I nominativi di queste mille e passa persone non si sanno e non si può quindi dire chi tornò. Di certo si sa che nel febbraio 1962 nel carcere di Sremska Mitrovica c’erano ancora in vita 36 italiani reclusi per reati politici, mantenuti dal 1957 con pacchi di viveri e indumenti mandati dalla Croce rossa italiana con l’autorizzazione del nostro governo.
Infine, merita una segnalazione una lettera, inviata il 23 novembre 2000 da Dragutin Crnic, residente a Skrljevo, in Croazia, al quotidiano Novi List, al presidente della Società di studi fiumani e alla nostra presidenza del Consiglio, sulla foiba di Costrena, nei pressi di Fiume, rimasta in attività fino al 1950. «Dalla città partivano, incolonnati, uomini e donne che venivano, in un primo momento, condotti alla scuola di Santa Lucia e successivamente rinchiusi in uno scantinato. Da questa scuola, durante la notte, venivano condotti fino alla foiba e qui uccisi senza pietà e gettati nel fondo della voragine detta Bezdanka. In questo modo finivano tutti coloro che erano sospettati dai partigiani e dai loro sostenitori. Si sa, in particolare, dell’uccisione di italiani e di coloro che desideravano andare a vivere in Italia. Al posto di essere inviati alla frontiera venivano condotti a Costrena». Ovviamente in Italia, con Giuliano Amato premier, non ne ha parlato nessuno.