«Quando gli anglo-americani bombardavano Pola, io non correvo nei rifugi sotto la roccia ma sulla cima del campanile: da lassù ho fotografato la storia». La tempra con cui affrontò la seconda guerra mondiale, quando ancora Pola e tutta l’Istria erano italiane, l’anziano frate la dimostra intatta oggi, a 100 anni suonati lo scorso 21 gennaio. Francescano, padre Germano (al secolo Mario Diana, nato in Friuli nel 1913) arrivò nel capoluogo istriano nel 1939 e con sei confratelli operò nella parrocchia di Sant’Antonio, il cui snello campanile svetta tuttora di fianco all’Arena, in riva all’Adriatico. «Quelli di Pola – racconta – sono stati gli anni più belli della mia vita, ma anche i più terribili». Perché se i ricordi della Grande guerra scivolano via dalla sua memoria di bambino, quelli della seconda restano marchiati a fuoco, soprattutto i giorni dell’occupazione titina, quando in Istria e Dalmazia per ordine del maresciallo comunista le epurazioni di italiani infuriano. «La guerra era finita, tutta Italia festeggiava, solo noi passavamo dal fascismo a una dittatura più orrenda».
Un paradosso storico che nella vita del francescano si materializzò in una pistola puntata alla schiena: «Era il 1945, le due di notte, al convento suonarono alcuni soldati di Tito, la città in quei giorni di “pace” era percorsa dal terrore dei rastrellamenti. Cercavano Mattioli Ermanno, maestro, “colpevole” di essere il cognato del prefetto… In quei giorni eravamo tutti “colpevoli” di qualcosa, l’obiettivo reale era eliminare in fretta tutti gli italiani». Il maestro Mattioli era davvero nascosto nelle stanze dell’orfanotrofio gestito dai francescani, insieme ad altre decine di polesani, nel tentativo di salvarsi dalle foibe. Ma quando gli sgherri fecero irruzione, Mattioli era già fuggito, «mentre la moglie e i loro tre bambini, Nino, Fulvia e Gianfranco, vennero portati in caserma. Ovviamente si consegnò…».
Quella di padre Germano è la voce di chi i fatti li ha vissuti in prima persona e oggi li valuta con la saggezza del centenario: «Mussolini ha combinato un caos. Il 10 giugno del 1940, giorno in cui annunciò la dichiarazione di guerra, ho pianto. “È l’ora delle decisioni irrevocabili” disse lui da piazza Venezia, “siamo fritti” pensai io. Pola era un paradiso, si viveva nella pace e nella bellezza, io coordinavo la filodrammatica, istruivo i ragazzi dell’orfanotrofio e dell’oratorio, avevo sempre intorno i miei chierichetti. Dalla finestra vedevo il mare blu e l’Arena di pietra candida, da cui mi arrivavano la sera le note delle opere liriche. Poi fu l’inferno».
E padre Germano prese a fotografarlo. «Il 6 gennaio del ’44 ci fu un bombardamento terribile. Eravamo tutti a teatro, cantava la famosa artista polesana Italia Vaniglio (scomparsa lo scorso dicembre quattro giorni dopo suo marito, il conduttore televisivo Febo Conti, ndr), Sergio Endrigo era ancora piccolino. Tutti corsero ai rifugi, io sul campanile», dice mostrando una foto in cui il mare ribolle tra alte colonne d’acqua sollevate dalle bombe. «Non ero matto, anzi, per chi bombarda è più difficile prendere la punta di un campanile, e poi i piloti cercavano di preservare l’Arena romana e il mio campanile distava solo venti metri».
Quando “scoppia la pace”, però, anche padre Germano come altri 350mila italiani è costretto a fuggire. Lo fa il 17 febbraio del ’47 sul “Toscana”, che per l’ultima volta salpa con a bordo gli esuli. I suoi confratelli restano a Pola, ma questo costerà loro anni di lavori forzati nei lager di Tito. «Subirono un processo farsa, nel quale anche io fui condannato in contumacia come… “spia del Vaticano”. In seguito verranno liberati grazie a uno scambio di prigionieri e partiremo tutti per il Guatemala». Ma questa è un’altra storia, durata 50 anni (dal ’48 al ’98), durante i quali padre Germano ha conosciuto il suo secondo paradiso in terra al fianco dei contadini guatemaltechi.
Oggi, nel convento francescano della chiesa Votiva di Maria Ausiliatrice a Treviso concelebra tutti i giorni la Messa e continua a confessare i fedeli. È lì che giorni fa ha festeggiato il secolo con gli esuli del Libero Comune di Pola in esilio e i suoi ragazzini di un tempo, soffiando su due candeline: per i 100 anni di vita e i 75 di sacerdozio. «Il vescovo emerito di Trieste Eugenio Ravignani ha celebrato la Messa per me e io… gli ho fatto da chierichetto. Nel ’40 a Pola il mio piccolo chierichetto era lui, anche sotto le bombe!».
Lucia Bellaspiga su Avvenire del 10 febbraio 2013