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“Fermati, Neretva” (balcanicaucaso.org 10mag13)

Nel maggio di 70 anni fa i partigiani di Tito riuscivano a sfuggire all’accerchiamento nemico con la battaglia della Neretva. Domani a Jablanica gli antifascisti bosniaci celebrano il ricordo della vittoria, in un paese trasformato dagli anni ’90.

Dell’inizio della mia permanenza in Italia, negli anni Novanta, ho ricordi frammentari, di attimi, non necessariamente i più importanti. In generale, ricordo che mi trascinavano qua e là per partecipare, come testimone, a conferenze, tavole rotonde, serate… Mi facevano domande, spesso, non tanto per sentire quello che avevo da dire, ma quello che volevano sentirsi dire.

In una di queste occasioni, nelle Marche, si teneva un incontro con i veterani, partigiani della Seconda guerra mondiale. Il moderatore, un certo Paolo B., si assicurò in anticipo che io non dicessi niente di sgradito ai veterani italiani (“mi raccomando: nessuna parola sui serbi”). Non volevano che dicessi che in Bosnia, durante l’ultima guerra, erano stati i serbi ad aggredire, attaccare, uccidere, conquistare, imprigionare nei campi di concentramento.

Confusa, balbettavo cose molto vaghe. Dopo mi sono arrabbiata con me stessa, mi sentivo come se avessi tradito i miei genitori. Entrambi erano stati partigiani durante la Seconda guerra mondiale, pluridecorati per il loro merito e coraggio. Come tanti altri, nell’ultima guerra in Bosnia sono stati vittime dei neo-fascisti e neo-nazisti. Ma, secondo il preconcetto (ignoranza?) dei veterani italiani, i miei, essendo musulmani bosniaci, non potevano essere considerati né compagni, né vittime. Al massimo, accettavano l’adagio secondo cui là “tutti erano responsabili”, il che voleva dire che nessuno era colpevole.

Ci ho messo un po’ di tempo per capire i motivi di questa incapacità dei partigiani, e in generale della sinistra italiana, di capire che l’antifascista non è obbligatoriamente collegato a una (unica) fede o popolo e, nel caso della ex Jugoslavia, esclusivamente ai serbi. L’Armata popolare di liberazione della Jugoslavia, cioè i partigiani, era composta da serbi, croati, musulmani, ebrei, rom, patrioti di vari orientamenti politici, comunisti convinti e non comunisti, religiosi e atei. Questo distingueva i partigiani dai cetnici (nazionalisti serbi) e dagli ustascia (nazionalisti croati), entrambi movimenti mono-nazionali e mono-religiosi, entrambi collaboratori, durante la Seconda guerra mondiale, dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani.

L’ultima volta che i miei, e decine di migliaia di altri veterani partigiani, erano stati a fianco del loro comandante Tito, fu nel 1978. A Jablanica, una piccola città della Bosnia centrale, si celebrava l’anniversario della leggendaria battaglia della Neretva, conosciuta anche come la battaglia per i feriti (“bitka za ranjenike”). Una foto ritagliata dai giornali dell’epoca conferma i ricordi: i miei, seduti in prima fila, a testa alta e con il petto decorato di medaglie.

La battaglia della Neretva si combatté all’inizio del 1943 tra le forze dell’Asse (tedeschi, italiani, ustascia, cetnici) e l’Armata popolare di liberazione della Jugoslavia. Ci insegnavano che era stata una delle battaglie più umane, perché i partigiani portarono in salvo circa quattromila feriti. Negli annali della Seconda guerra mondiale, la battaglia sulla Neretva viene ricordata per la sua strategia basata su un astuto inganno che permise ai partigiani di Tito di salvarsi da una situazione disperata.

L’offensiva tedesca, impegnata nell’operazione “Weiss”, puntava a distruggere sia il comando supremo sia il principale ospedale dei partigiani. Nel marzo 1943 i partigiani furono spinti in un angolo – sembrava – senza via di uscita. Alle spalle c’erano circa centomila soldati nemici accompagnati da diverse unità d’élite rinforzate da brigate corazzate. Dall’altra parte la Neretva e, oltre l’unico ponte che collegava le due sponde del fiume, ventimila cetnici, alleati dei tedeschi. Le truppe di Tito erano impacciate da migliaia di feriti, di ammalati, e di civili che si ritiravano di fronte alle forze nemiche.

I partigiani avanzavano verso la piccola città di Prozor, occupata dagli italiani, ben fortificati. Il primo attacco su Prozor fu respinto dagli italiani, ma non il secondo. La città cadde, i partigiani catturarono e uccisero 740 membri del terzo battaglione 259, il reggimento della divisione “Murge”, semplicemente perché il primo giorno dell’attacco i soldati avevano rifiutato di arrendersi. Tra questi c’era forse Rocco M., ufficialmente scomparso durante la battaglia della Neretva. Di lui mi ha chiesto recentemente notizie suo figlio, oggi ultra settantenne. Aveva letto che ero originaria di quelle parti, e così mi ha scritto sperando che avessi sentito qualche voce su suo padre, scomparso nel 1943. Episodi come questo ci fanno capire che un certo dolore è permanente, e che la speranza non muore mai.

Da Prozor, i partigiani si diressero verso il ponte sulla Neretva, l’unica via di uscita dall’accerchiamento. Contrariamente a quanto tutti si aspettavano, Tito ordinò ai suoi ingegneri di far esplodere il ponte. Fu un’azione che aveva dell’incredibile, perché significava chiudere l’unica via di fuga. I generali tedeschi si convinsero che i partigiani si stavano preparando a un attacco finale, a nord delle loro posizioni, e che quindi il ponte era stato fatto esplodere per sollevare il morale e prevenire le diserzioni. Il comando tedesco cominciò a ridisporre le truppe nella zona per annientare i partigiani.

Durante la notte, però, il maresciallo Tito ordinò ai suoi ingegneri di costruire un ponte provvisorio, accanto a quello distrutto. Di questa epica battaglia conosco a memoria tantissimi dettagli grazie ai racconti dei miei genitori che vi avevano preso parte. Papà era il comandante partigiano del territorio, e mamma una partigiana ammalata di tifo, che si trovava in mezzo ai feriti leggeri.

I membri della Seconda brigata dalmata (che avevano fama di essere eroici e coraggiosi) tenevano legate intorno alla vita, con il filo di acciaio, delle piccole bombe, dette “italijanke”. Così equipaggiati avevano attraversato a nuoto il gelido fiume. Dall’altra parte avevano sorpreso i cetnici che, presi dal panico, erano scappati. Poi uno dei dalmati, Glišo Opačić, attraversò il fiume tenendo tra i denti il cavo di acciaio che servì per collegare le due sponde del fiume con il ponte provvisorio.

Le due metà del ponte saltato in aria erano cadute nel fiume formando una lettera “V”. Quel ponte rotto serviva per far attraversare il fiume ai i partigiani, ai civili e ai feriti leggeri. Attraverso il ponte provvisorio passavano i cavalli e le barelle con i feriti gravi. Quando i tedeschi si accorsero dell’inganno era ormai tardi. I partigiani avevano oltrepassato il fiume.

“Faceva buio, freddo, pioveva a dirotto. Sotto c’era il fiume che ruggiva, sopra la Luftwaffe (l’aviazione militare tedesca) che ci bombardava. I feriti si lamentavano, i cavalli spaventati nitrivano. Ogni tanto si udivano gli urli dei disperati e un pesante splash, quando qualcuno cadeva nel fiume grosso e minaccioso. Ci precipitavano i cavalli con il carico, le barelle con i feriti trascinando con loro anche quelli che li portavano, o si buttavano allucinati i malati di tifo”, così mia madre ricorda quella traversata.

L’esito della battaglia della Neretva fu una vittoria per i partigiani jugoslavi. La ritirata strategica era riuscita, pur con ottomila partigiani uccisi. Il comando supremo e la maggior parte dei combattenti si salvò, e anche migliaia di feriti. I cetnici erano disfatti.

Una canzone con la musica tradizionale ricorda l’evento. Cantata dal gruppo “Djevojke sa Neretve” (Le ragazze della Neretva), ancora oggi fa venire i brividi per la voce eccezionale della solista e per i versi forti: “Stan’ Neretvo, stani rode, mi idemo do slobode” (Fermati Neretva, fermati umanità, andiamo verso la libertà).

Una delle vittime dell’ultima guerra è stato l’antifascismo, una virtù – come si sa – non solo balcanica. L’antifascismo rappresenta un patrimonio universale e tale rimarrà per sempre. Per il proprio antifascismo i partigiani jugoslavi celebravano, con gli alleati, la vittoria della Seconda guerra mondiale.

Negli anni Novanta, però, gli sconfitti della Seconda guerra mondiale, come i cetnici e gli ustascia, sono riapparsi in pubblico, la loro politica è diventata ufficiale, la loro ideologia statale. A incitare e a condurre la guerra fratricida degli anni Novanta in Jugoslavia erano i nazionalisti di vari colori, neonazisti e neofascisti, e diversi fondamentalisti, che rifiutavano e negavano l’antifascismo. La stessa Armata Popolare Jugoslava (JNA), che aveva ereditato la gloria dei partigiani, e alcuni dei suoi ufficiali – veterani della Seconda guerra mondiale – hanno cambiato orientamento ideologico. Volontariamente hanno rinunciato all’idea universalmente riconosciuta, hanno voluto escludersi dai vincitori, e si sono schierati con gli assassini, i tagliagole, i sostenitori della pulizia etnica, i teorici del genocidio e i costruttori dei campi di concentramento.

Loro rivisitano la storia, manipolano i fatti. E così gli eroi che avevano salvato la patria dagli occupanti vengono rinnegati, i loro nomi vengono tolti dalle piazze e dalle strade, i monumenti eretti per ricordarli vengono abbattuti. I neo-cetnici, dopo gli ultimi crimini compiuti in Bosnia, hanno costruito un monumento al generale Draža Mihailović, capo dei cetnici durante la Seconda guerra mondiale, processato e giustiziato per crimini di guerra e alto tradimento. Più che un monumento alla memoria, quella statua rappresenta un monito ai sopravvissuti al genocidio. Dall’altra parte, i nuovi ustascia croati cambiano i nomi delle vie, celebrando i loro ispiratori, quelli che durante la Seconda guerra mondiale facevano sparire nei campi di sterminio tutte le persone che non appartenevano al puro popolo croato.

Venti anni dopo l’ultima guerra, la popolazione della Bosnia Erzegovina, in parte, soffre ancora delle conseguenze del conflitto. Alcune persone vivono come in letargo, molte si sono arrese davanti alle difficoltà, sono depresse, ammalate, deluse, si sentono impotenti, non riescono a capire fino in fondo cosa sia loro successo e cosa ancora capiterà… E poi ci sono quelli che approfittano spietatamente della situazione e della disperazione per puri fini egoistici.

In queste circostanze, e nonostante tutto, la piccola fiamma dell’antifascismo non si è mai spenta. È stata salvata dai veterani, quelli che non hanno tradito né se stessi, né i propri ideali, e accolta dai giovani che, in quell’ideale, riconoscono il futuro.

Decine di migliaia di queste persone saranno a Jablanica sabato 11 maggio per celebrare i settant’anni della battaglia della Neretva. Saranno là per promuovere l’antifascismo come valore e orizzonte di vita, l’unico che possa costruire una nuova società sana in Bosnia Erzegovina.

Azra Nuhefendić
www.balcanicaucaso.org 10 maggio 2013

 

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