di Giovanni Marizza
La pirateria di oggi, in particolare quella che alligna sulle coste somale e nell’Oceano Indiano, è una frustrante storia di criminalità che fa ciò che vuole grazie ad uno stato fallito (la Somalia) e alla comunità internazionale buonista e imbelle. La legge internazionale ci sarebbe, ad esempio l’articolo 100 della Convenzione dell’ONU sulla legge del mare stabilisce che “tutti gli stati dovranno cooperare fino alle estreme conseguenze nella repressione della pirateria in alto mare e in qualsiasi altro posto al di fuori della giurisdizione di uno stato”. In altre parole: le imbarcazioni dei pirati vanno colate a picco e le loro basi a terra vanno distrutte. In realtà soltanto le navi da guerra indiane e cinesi, che affondano senza complimenti i battelli dei malviventi e le loro navi madri, sembrano attenersi a quel dettato. Le missioni delle Organizzazioni internazionali, invece, pattugliano stancamente, sbirciano in giro svogliatamente e sembrano agire in base al motto “ma chi ce la fa fare a cercare guai…”
Ma lasciamo perdere questa storia triste e rievochiamo un fatto poco noto, più goliardico che cruento, che risale a novant’anni fa e che aveva per teatro nientemeno che l’Adriatico. Dopo l’impresa fiumana di D’Annunzio, la “Reggenza del Carnaro” futurista, rivoluzionaria e filibustiera -e pertanto avversata dall’Italia ufficiale- se la passava male e scarseggiavano pure i viveri. Il blocco navale e terrestre imposto a Fiume aveva ridotto la popolazione alla fame, tant’è vero che nel 1920 centinaia di bambini fiumani malnutriti giunsero in Lombardia per essere curati e nutriti da privati volonterosi. Il governo italiano, consapevole che ogni bambino fiumano affidato alle cure di una famiglia lombarda rappresentava un tremendo atto di accusa contro il presidente del consiglio Nitti, cercò invano di boicottare l’iniziativa.
Fu così che l’assedio convinse il Vate a trasformare i suoi legionari in pirati e a chiamarli “uscocchi”, dal termine croato cinquecentesco “uskok” che indicava i profughi balcanici fuggiaschi dalle invasioni ottomane e dediti alla pirateria.
La prima nave a essere dirottata a Fiume fu la “Persia” nell’ottobre del 1919, col suo carico di armi destinato alla Russia, non si sa bene se a beneficio dei rossi o dei bianchi allora in stato di guerra civile. Il piroscafo (ma non il carico) fu poi restituito previa consegna di 12 milioni di lire raccolte da una cordata di imprenditori capeggiati dal senatore Borletti, proprietario della “Rinascente” e amico del Poeta.
Toccò poi al cacciatorpediniere “Bertani” sequestrato nel porto di Trieste e ai mercantili “Baron Fejervary” battente bandiera ungherese, “Trapani” e “Cogne”. Quest’ultimo apparteneva alla società di navigazione Ansaldo di Genova e doveva trasportare materiale del valore di 200 milioni di lire in Argentina. Fu invece dirottato dagli “uscocchi” da Catania a Fiume nell’ottobre del 1920 grazie ad un colpo di mano del capitano Romano Manzutto, imbarcatosi clandestinamente nel porto della città etnea assieme ad altri sei uscocchi. Stavolta i Fiumani non si tennero il carico ma lo restituirono, non prima di aver ricevuto in cambio un cospicuo riscatto.
Alcuni uscocchi agivano anche sulla terraferma e svaligiavano i convogli ferroviari fermi alla stazione di Palmanova, anticipando ciò che i marò della X Flottiglia MAS del Principe Junio Vario Borghese avrebbero fatto nel 1944: ripulire treni carichi di armi, travestiti da partigiani.
Nell’aprile del 1920 i legionari fiumani sequestrarono una cinquantina di robusti cavalli da tiro del Regio Esercito. Le autorità militari italiane minacciarono severe rappresaglie e ottennero la “restituzione” degli animali, ma si videro recapitare altrettanti ronzini malandati e magrissimi, inadatti a qualsiasi lavoro.
Un bel giorno gli uscocchi catturarono pure un generale italiano, Arturo Nigra comandante della 45° divisione. Un bello smacco per l’esercito italiano che riebbe il generale solo dopo che costui ebbe rilasciato convinte dichiarazioni di apprezzamento per i suoi rapitori e di ammirazione per D’Annunzio.
I Fiumani tenevano per sé solo materiali di proprietà del governo italiano ma restituivano o rifondevano scrupolosamente quanto apparteneva ai privati. Il tutto avveniva sotto l’attenta supervisione del “dittatore ai viveri”, ovvero il colonnello Vittorio Margonari direttore dei servizi di commissariato e contabilità della Reggenza, che si autodefiniva ironicamente “il ricettatore Margonari”. D’altra parte, D’Annunzio stesso veniva chiamato “il grande Uscocco” dai suoi sottoposti.
A partire dal gennaio 1921, con la fine dell’impresa fiumana e con il ritiro del “Grande Uscocco” in una villa sul lago di Garda, nell’Adriatico non si sentì più parlare di pirateria.